
Allo studio immunità naturale a Covid-19, tra geni e vecchie infezioni
di Valentina Arcovio
In alcune famiglie colpite da Covid-19 può esserci un membro solo che non risulta mai positivo e che non ha mai mostrato alcun sintomo dell’infezione. Mentre possono esserci persone che vengono infettate più di una volta. Un vero e proprio mistero che non è sfuggito agli scienziati. Per questo sono in corso numerosi studi in tutto il mondo che hanno l’obiettivo di rivelare il segreto che si cela dietro alle persone che mostrano un’immunità naturale al virus Sars-CoV-2 e a tutte le sue varianti. La speranza degli scienziati è che, studiando questi pazienti “resistenti”, possano trovare indizi che li aiuteranno a creare un vaccino a prova di variante in grado di tenere a bada Covid-19 per sempre. Negli Stati Uniti e in Brasile i ricercatori stanno esaminando potenziali mutazioni genetiche che potrebbero rendere alcune persone immuni all’infezione. All’University College London, invece, gli scienziati stanno studiando campioni di sangue di centinaia di operatori sanitari che, apparentemente contro ogni previsione, non si sono mai infettati. Una di queste operatrici in prima linea è Lisa Stockweel, un’infermiera di 34 anni del Somerset (Regno Unito) che ha lavorato in pronto soccorso e, per la maggior parte del 2020, in un’unità ad alto rischio dove venivano valutati per la prima volta i pazienti con infezione da Covid. A raccontare la sua storia è stato il Daily Mail.
Storie di immunità naturale
Nonostante Lisa abbia lavorato a fianco di molti colleghi rimasti infettati da Covid-19, lei non ha mai mostrato sintomi o segnali dell’infezione. “Non sono mai stata male – racconta l’infermiera – e il mio test anticorpale, che ho fatto alla fine del 2020, prima di essere vaccinata, è risultato negativo. Mi aspettavo di avere un test positivo ad un certo punto, ma non è mai arrivato. Non so se ho un sistema immunitario molto robusto, ma sono solo grata di non essermi ammalata”. All’inizio della pandemia, neanche i famigliari di Lisa si sono rivelati una minaccia. “Mio marito – racconta – è stato male per due settimane con una febbre che lo ha lasciato delirante. Stava davvero male, ma si è rifiutato di andare in ospedale. Nonostante condividessi il letto con lui, non sono mai stata contagiata”. Nasim Forooghi, 46 anni, un’infermiera del St Bartholomew’s Hospital nel centro di Londra, racconta una storia simile. Madre di due figli, il cui marito è un medico, è stata fortemente coinvolta nella ricerca sul monitoraggio del Covid tra il personale in prima linea, un ruolo che l’ha potenzialmente esposta a centinaia di persone infette dall’inizio della pandemia nel 2020. Come Lisa, anche lei è stata sottoposta a una serie di test anticorpali che non hanno riscontrato alcuna traccia del virus. “Ovviamente stavo usando indumenti protettivi ma, anche così, sono stata esposta a molte persone infette”, dice Nasim. “Non so se sia dovuto a un forte sistema immunitario o forse sono stata solo fortunata. Facevo esami del sangue ogni settimana, ma non hanno trovato nulla”, aggiunge.
Il possibile ruolo di infezioni passate
Quando i ricercatori dell’UCL hanno esaminato il sangue di operatori sanitari apparentemente a prova di Covid, prelevato prima dell’introduzione del vaccino, hanno confermato che questi soggetti non avevano anticorpi Covid, il che significa che era improbabile che fossero mai stati infettati. Tuttavia, hanno scoperto la presenza di altre cellule del sistema immunitario, chiamate linfociti T, simili a quelle che si trovano nel sistema immunitario delle persone che si sono riprese dal Covid. I linfociti T sono creati dal sistema immunitario per respingere gli invasori. Mentre gli anticorpi impediscono alle cellule virali di entrare nel corpo, le cellule T le attaccano e le distruggono. È ormai noto che gli anticorpi Covid possono iniziare a diminuire nel giro di pochi mesi sia dopo l’infezione che dopo la vaccinazione. Tuttavia, i linfociti T rimangono nel sistema più a lungo e hanno lo scopo di contrastare il virus prima che abbia la possibilità di infettare le cellule sane o causare danni. Ma la domanda su cui ci sono concentrati i ricercatori è stata questa: che ci fanno questi linfociti in persone probabilmente mai infettate? Una teoria è che questa protezione dipenda da un’esposizione regolare in passato. Questo potrebbe essere dovuto al lavoro di chi ha a che fare con pazienti malati e che ha affrontato altri tipi di coronavirus meno distruttivi. Naturalmente c’è la possibilità che gli operatori sanitari abbiano preso il Covid ma non abbiano manifestato sintomi: all’inizio della pandemia, fino alla metà dei casi erano ritenuti asintomatici. Ma il team dell’UCL ha effettuato ulteriori test su centinaia di altri campioni di sangue raccolti nel lontano 2011, molto prima che scoppiasse la pandemia, e ha scoperto che circa uno su 20 aveva anche anticorpi che potevano distruggere il Covid. I campioni prelevati dai bambini avevano i livelli più alti di questi anticorpi. Secondo gli scienziati questo perché i più piccoli tendono a essere regolarmente esposti a coronavirus che causano il raffreddore negli asili e nelle scuole. Un’ipotesi, quest’ultima, che spiegherebbe anche perché, ora, Covid-19 causa raramente malattie gravi in questa fascia di età.
Vaccini a prova di variante
Capire come il sistema immunitario funziona potrebbe contribuire significativamente allo sviluppo di nuovi vaccini a prova di variante. La maggior parte dei vaccini Covid imita la proteina spike, che è la chiave con cui il virus entra nelle cellule sane. Questo consente al sistema immunitario di creare anticorpi e cellule T in grado di combattere il vero virus Covid qualora entrasse dentro l’organismo. Ma, ovviamente, i vaccini Covid funzionano solo se il sistema immunitario riconosce la proteina spike. Se, come con omicron, la proteina spike muta in modo significativo al punto da diventare quasi irriconoscibile per il sistema immunitario, è probabile che sia la risposta anticorpale che quella dei linfociti T siano indebolite. Ed è qui che entrano in gioco i risultati dell’UCL. Sembra che la spiegazione più probabile per un sistema immunitario a prova di Covid sia che, dopo essere stato ripetutamente esposto a un altro coronavirus, è quindi in grado di rilevare e sconfiggere eventuali parenti mutati perché riconosce le proteine che si trovano all’interno del virus piuttosto che sulla sua superficie. Questi variano poco tra i coronavirus. “Le proteine interne non mutano alla stessa velocità di quelle esterne”, afferma Andrew Easton, virologo della Warwick University. Tra le aziende che hanno provato a creare vaccini che contengano queste proteine interne stabili, c’è la società di biotecnologie Emergex con sede nell’Oxfordshire. In particolare, ha sviluppato un cerotto cutaneo che si attacca alla parte superiore del braccio. Minuscoli microaghi nel cerotto perforano la pelle in modo indolore, consentendo ai frammenti di una serie di proteine virali di penetrare nel flusso sanguigno e innescare il rilascio di cellule T anti-coronavirus. I test, che inizialmente coinvolgeranno 26 volontari, dovrebbero iniziare a breve in Svizzera e i primi risultati dovrebbero essere disponibili entro giugno. “Questi vaccini Covid di seconda generazione esamineranno parti del virus che sono meno inclini a cambiare rispetto alla proteina spike”, afferma Lawrence Young, altro virologo della Warwick University. “L’idea è che prendano di mira parti del virus che sono condivise da diversi membri della famiglia dei virus, quindi non solo sono attivi contro Covid-19 ma tutti i coronavirus, punto e basta”, aggiunge
Mutazioni genetiche legate all’immunità naturale
Un’altra ipotesi plausibile è che la naturale resistenza al Covid dipenda dai geni. All’Università di San Paolo in Brasile, i ricercatori hanno reclutato 100 coppie conviventi in cui una persona era infetta e sintomatica, mentre il partner non lo è mai stato. Gli esami del sangue hanno confermato che non avevano anticorpi specifici per Covid, il che significa che è improbabile che abbiano mai contratto il virus. Le coppie verranno sottoposte a test del DNA con lo scopo di verificare l’eventuale presenza di differenze significative tra di loro. Mayana Zatz, ricercatrice coinvolta nello studio, ha affermato che è stato “relativamente facile” trovare coppie volontarie. “Abbiamo ricevuto circa 1.000 e-mail da persone che affermavano di trovarsi in questa situazione”, dice. La resistenza genetica è qualcosa che è stata osservata con altri virus. A metà degli anni ’90, i medici scoprirono che un uomo americano, Stephen Crohn, nonostante fosse stato esposto a numerosi partner sieropositivi, non aveva segni di infezione da HIV. E’ un’ipotesi affascinante, ma ancora tutta da dimostrare.
FONTE ARTICOLO: https://www.dailymail.co.uk/health/article-10360873/Mounting-evidence-suggests-people-naturally-Covid-resistant-virus-mutates.html