
Cos’è la Sindrome prefrontale di cui si parla nella serie DOC
Di Ida Macchi
La seconda serie è ormai finita , ma la terza è già in cantiere perché, con il 28% di share come media e ben 6-7 milioni di spettatori a puntata, “Doc – Nelle tue mani”, il medical drama con Luca Argentero, ha dominato gli ascolti, polverizzando ogni altra fiction e reality. Il boom è legato proprio al carisma del protagonista, il dottor Andrea Fanti, la cui carriera, e non solo, cambia drasticamente dopo un colpo di pistola alla fronte, esploso dal padre di un paziente che lo incolpa della morte del figlio. Quello sparo gli porta via un quarto del cervello e gli cancella gli ultimi 12 anni di ricordi. Lo cambia anche sul fronte della personalità: da primario autoritario, impulsivo e senza empatia per i pazienti che tratta dall’alto del suo camice bianco, si trasforma in un semplice aiuto medico che tutti vorrebbero però incontrare: non ha filtri, dice quel che pensa, nel bene e nel male, senza paura di mettersi nei guai, vive il “qui e adesso” e fa squadra con la sua equipe e i suoi malati. In pratica, diventa prefrontale.
Non e’ un’invenzione
E questa non è l’invenzione degli autori della fiction, perché la sindrome prefrontale esiste davvero, anche se nel mondo reale difficilmente migliora la vita e le relazioni . “E’ legata alla lesione della corteccia prefrontale, ovvero quella zona del cervello che ha il compito di pianificare il nostro comportamento complesso sia nel prendere decisioni che nell’integrarci nell’ambito sociale”, spiega il professor Giampaolo Perna, psichiatra e direttore del Dipartimento di neuroscienze cliniche di Villa San Benedetto Menni ad Albese e del Centro per i Disturbi d’ansia ed emotivi CEDANS a Milano. Insomma, la corteccia prefrontale rappresenta la parte del cervello che gestisce e modula la nostra emotività e impulsività rendendola funzionale a prendere decisioni sociali e personali valide per il nostro futuro. “Se il cervello emotivo, ovvero il sistema limbico, guarda al presente e alla soddisfazioni immediate, la corteccia prefrontale vede lungo e organizza il nostro comportamento per aiutarci a pianificare il nostro domani”, aggiunge il professor Perna. “ Ecco perciò che, se lesionata, ci rende impulsivi, incapaci di controllare le nostre emozioni, guidati dall’ottenere soddisfazione, a prescindere dagli altri e dalle possibili conseguenze, anche se generalmente non invece ha un effetto così forte sulla memoria”.
Under 16 e over 80
Per altro, indipendentemente dai traumi, questi comportamenti li sperimentiamo tutti in certi momenti della vita in cui, fisiologicamente, c’è un funzionamento “non ottimale” della corteccia prefrontale. “Capita durante l’infanzia e l’adolescenza, periodi evolutivi in cui non sono ancora maturi i circuiti cerebrali deputati al controllo del cervello emotivo e si ha difficoltà nel gestire le emozioni e la tendenza a non considerare le conseguenze sociali e relazionali delle proprie azioni”, sottolinea il professor Perna . “Stesso copione in età avanzata, quando c’è una riduzione del funzionamento della corteccia prefrontale e per certi versi si torna bambini: riemergono comportamenti impulsivi ed altamente emotivi che ci rendono spesso poco saggi e sordi alle possibili conseguenze delle nostre azioni e delle nostre parole”.
Effetti diversi a seconda della zona lesionata
I cambiamenti di personalità e di comportamento, però, sono strettamente legati anche all’area che viene lesionata e, dagli studi sembrerebbe che la corteccia prefrontale sinistra regoli maggiormente le emozioni positive, mentre quella destra le emozioni negative. Non solo: “se viene lesionata la parte anteriore della corteccia prefrontale si hanno soprattutto danni nelle funzioni esecutive, quali attenzione, difficoltà nel problem solving, orientamento spaziotemporale, senso del giudizio, capacità decisionale, capacità di astrazione”, spiega il professor Perna. “Quando invece viene lesionata la corteccia orbito-frontale viene compromessa la capacità di valutare i comportamenti sociali e le abilità relazionali in funzione del contesto ambientale. In un certo senso la persona diventa egoista, incapace di valutare le conseguenze dei propri comportamenti, scostante, impulsiva e in casi estremi anche antisociale”. Ne è una dimostrazione il primo caso di sindrome prefrontale, descritto nel 1848, quando Phineas Cage, addetto alle costruzioni di una ferrovia nel Vermont, venne trafitto da una sbarra di ferro che gli lesionò il volto e il cranio, ma soprattutto la corteccia orbito frontale. Da gentile e affidabile, capace di essere un leader rispettoso e rispettato, abile nel pianificare e gestire le proprie risorse, dopo l’incidente, diventò blasfemo, iroso e privo di freni inibitori, perdendo il proprio lavoro e la stima delle persone che gli stavano intorno. Insomma, si trasforma da dottor Jekyll in mister Hyde.
Non solo incidenti
Le alterazioni di personalità sono in agguato non solo per incidenti, ma anche per colpa di problematiche vascolari cerebrali come un ictus, per interventi chirurgici di ablazione di parti della corteccia prefrontale (ad esempio per la rimozione di un meningioma, un tumore dei tessuti che avvolgono il cervello), o per certi disturbi della personalità , quale quella borderline, dove si ipotizza un alterato funzionamento della corteccia. “Se la parte lesionata è quella anteriore, esistono alcuni test neuropsicologici (come test decisionali o di problem solving, attentivi e di working memory) che possono evidenziare i deficit delle funzioni cognitive regolate da questa zona del cervello”, spiega il professor Perna. “Nel caso di un disturbo di personalità, invece, è proprio la difficoltà nel gestire le emozioni e la tendenza a non considerare le conseguenze sociali e relazionali dei propri comportamenti a funzionare da campanello d’allarme. Poi, se il danno corticale è legato a un trauma fisico, si può ricorrere a procedure riabilitative e a psicofarmaci con molecole ad azione anti-impulsiva, anche se non sempre i risultati sono quelli sperati. Nel caso di una difficoltà nel regolare le proprie emozioni, invece, esistono tecniche psicoterapiche cognitivo comportamentali che, integrate ad una adeguata terapia farmacologica, possono aiutare a recuperare un buon equilibrio”.