COVID – 19: attacco ai reni. Interessa il 15% dei soggetti in terapia intensiva

Luca Di Lullo Direttore UOC Nefrologia e Dialisi, Ospedale “L. Parodi – Delfino”, Colleferro

Come noto ai più, l’infezione da virus SARS Cov – 2 (meglio conosciuta come malattia da COVID – 19) colpisce a diversi livelli anche se il coinvolgimento polmonare e delle prime vie respiratorie gioca sicuramente un ruolo di primissimo piano. Ma quello che è spesso sottostimato è l’interessamento renale che, nelle diverse casistiche, presenta un ‘incidenza del 10 – 15% dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. In questa particolare e sfortunata popolazione di pazienti, l’insorgenza di un deficit renale acuto (definito AKI dagli addetti ai lavori, ovverosia “Danno renale acuto”) aggrava ulteriormente la prognosi, già complessa di per sé.

Sin dall’inizio di questa terribile pandemia, i clinici hanno cercato di trovare, pur nelle iniziali difficoltà dovuta alla scarsa confidenza con la tipologia d’infezione, le migliori soluzioni in tema di trattamento farmacologico ma, nei pazienti con coinvolgimento renale, il punto d’arrivo è stato sempre l’inizio della terapia dialitica.

Allo stesso tempo, però, pur iniziando la suddetta terapia nei tempi e nei modi usualmente definiti per altri tipi di infezioni virali quantomeno simili a quella determinata dal COVID – 19, l’esito è spesso infausto soprattutto in virtù della particolare aggressività del virus stesso.

Per questo motivo, oltre a cercare di trovare alternative sempre più mirate nell’ambiti dei trattamenti dialitici, la ricerca ha cercato di indirizzarsi verso terapia farmacologiche (Ad es con anticorpi monoclonali) in grado di agire anche sulle complicanze renali.

Una recente pubblicazione scientifica ha cercato di fare luce su un nuovo potenziale attore in grado di poter agire sulle complicanze renali dell’infezione da SARS Cov – 2: si tratta dell’acido sulfidrico (H2S), una sostanza tossica di per sé ma, a quanto pare, potenzialmente in grado di indurre effetti positivi sui reni dei pazienti con malattia da COVID – 19.

La malattia da COVID – 19, anche a livello renale, innesca una potentissima risposta infiammatoria caratterizzata da elevati livelli di particolari sostanze che possono essere facilmente dosate nel siero dei pazienti colpiti (le cosiddette interleukine che fanno parte della famiglia delle citochine); questa “tempesta” infiammatoria” danneggia le cellule dei principali organi bersaglio, tra i quali, in primis, vi sono i polmoni e, appunto, il rene.

Gli Autori della pubblicazione alla quale ci riferiamo hanno evidenziato come, nei pazienti sopravvissuti alle gravi complicanze polmonari dell’infezione, si siano riscontrati bassi livelli di interleukine ma elevati livelli di acido sulfidrico. Quest’ultimo, pur essendo un gas dagli effetti nocivi se usato in modo improprio, in realtà presenta delle importanti proprietà anti – infiammatorie, antivirali, anti – ossidanti ed anti – trombotiche, il che ne farebbe un agente ideale per contrastare gli effetti tossici, soprattutto a livello renale, della malattia da COVID – 19. A livello renale, infatti, sono presenti in elevate concentrazioni gli enzimi che presiedono alla sintesi di acido sulfidrico e, proprio a livello renale, l’acido sulfidrico riduce la produzione di mediatori chimici in grado di amplificare il danno provocato dall’infezione.

Al momento si tratta, ovviamente, solo di prove indirette del ruolo potenziale dell’acido sulfidrico come opzione farmacologica ma, forse, siamo sulla buona strada per avere un’ulteriore opzione sicuramente a basso costo e dall’elevata disponibilità.

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