Dalla cura dei malati alla cura della salute, ripensare la prevenzione nei sistemi sanitari

In occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS facciamo un ‘ripasso’ di tassonomia della prevenzione e di come si sia evoluta nel tempo

Di Johann Rossi Mason, Giornalista medico scientifico e Direttore Editoriale

Con la collaborazione di Fabio Beatrice, Direttore Scientifico del MOHRE

La maggior parte dei sistemi sanitari occidentali sono molto occupati a investire risorse nel curare le malattie quando si sono manifestate, ma non allocano altrettanti sforzi nella prevenzione. 

In parte perché la prevenzione è una strategia complessa, ad ampio spettro, sistemica, le cui basi vanno gettate dalla prima infanzia se non dalla vita prenatale. Un mix di politiche ambientali, strategie sul posto di lavoro, educazione, formazione, counseling, stili di vita. Una complessità che prevede la salute e il benessere globali come previsto dal concetto One Health che prevede di allineare le priorità di salute umana, animale e ambientale in quanto sistemi interconnessi. 

La medicina attuale è impegnata a trattare gli stati acuti ma soprattutto a tamponare la progressione di quelli cronici. Curare è il suo mantra, mentre è nelle trame della cura che si intravede l’ordito dell’intervento di prevenzione in tutti i suoi livelli. 

Anche mettere in campo comportamenti sociali e individuali per limitare il rischio di malattia è un intervento a più livelli, molti più di quanti ne conosciamo: sono almeno 5 e li vedremo più avanti nel dettaglio.

Spostare il focus sulla prevenzione non implica la possibilità di eliminare in radice la malattia, ma piuttosto abbraccia il modello di “compressione della morbilità” di Fries , in cui la durata della vita libera da malattia è estesa attraverso la prevenzione delle complicanze e l’onere dei sintomi viene compresso in un periodo limitato prima della morte. 

La prevenzione è lo strumento ideale per affrontare le condizioni croniche, che richiedono decenni per svilupparsi e poi si manifestano come esacerbazioni potenzialmente letali e, in definitiva, fatali. E prevede più vita libera da malattia, limitazioni, disabilità, oltre ad un intuitivo risparmio di risorse. E’ in sintesi l’argomento di un recente editoriale apparso sul New England Journal of Medicine dal titolo From Sick Care to Health Care — Reengineering Prevention into the U.S. System.

Il modello dominante è attualmente quello dell’assistenza nella fase acuta con basi culturali, tecnologiche ed economiche saldamente incorporate in ogni aspetto del nostro sistema sanitario. Questo In parte perché la prevenzione e i suoi risparmi di medio periodo non fanno girare capitali, se si vuole usare uno slogan ‘la prevenzione non fa vendere’, ma soprattutto perché i suoi effetti positivi sono a medio-lungo termine. 

Le cause di morte prevenibili più diffuse sono l’obesità e il fumo, che si traducono in una malattia ritardata ma progressiva. In Italia l’80% della spesa è dedicata al trattamento e alla gestione delle malattie croniche. Ma la scarsa educazione sanitaria e la scarsa conoscenza del pubblico della scienza ha determinato la credenza che a pillola e chirurgia corrisponda automaticamente una guarigione, per di più rapida e che la diagnostica possa dare tutte le risposte. 

Un approccio riduzionistico che porta alla sfiducia quando questa guarigione non sia automatica o completa e che sottovaluta una serie di condizioni subcliniche che potrebbero essere corrette prima di aver bisogno di cure farmacologiche o invasive. 

Gioverà quindi un piccolo ripasso dei concetti insegnati nei corsi universitari di Igiene che mostrano una vera e propria tassonomia della prevenzione su 5 livelli più uno, quest’ultimo proposto dalle pagine di questa testata giornalistica come strumento parziale di intervento che non lasci indietro nemmeno coloro che hanno maggiori difficoltà. 

In principio fu  la prevenzione ‘primordiale’, quella che mira a ridurre al minimo i fattori di rischio potenziali per la salute o eliminare i determinanti di rischio di malattia, quindi una strategia orientata a livello macro sui determinanti di salute e non sul livello individuale di esposizione. 

Di questa prevenzione si parla pochissimo, non per la sua scarsa importanza, ma per l’incapacità di mettere mano a condizioni sistemiche; per farlo occorre – ad esempio – aumentare i divieti come quelli legati al consumo giovanile di fumo e alcol o diminuire i livelli di inquinamento delle città tramite blocchi della circolazione del traffico. 

Prevenzione ‘primaria’ é invece quella che mira ad impedire l’insorgenza di nuovi casi di malattia nelle persone sane. In questo caso si parla di ‘riduzione del rischio individuale’ eliminando l’agente causale di malattia, (per esempio la presenza di muffe in una abitazione per evitare problemi respiratori). La strategia di riduzione del rischio mira a scoraggiare comportamenti che possono aumentare il rischio di malattie, ad esempio accrescendo la consapevolezza riguardo ai danni da fumo o all’esposizione da sostanze utilizzate nel lavoro, e al contempo incrementando le difese dell’individuo rispetto a fattori di rischio presenti non eliminabili con una protezione specifica (es. indossare delle protezioni alle vie respiratorie per i lavoratori a contatto con inalanti). 

Un approccio di salute positiva che permette il mantenimento di un livello accettabile di salute e che ha le sue fondamenta nelle vaccinazioni, nella bonifica delle acque, nell’educazione sessuale per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse e delle gravidanze indesiderate ma anche l’igiene edilizia per evitare ambienti indoor malsani e gli infortuni domestici. Alla prevenzione primaria afferiscono anche interventi nutrizionali sotto forma di scelte individuali o sistemiche come la potabilizzazione dell’acqua o la fortificazione degli alimenti e strategie sulla popolazione come l’introduzione di un limite del contenuto di sodio negli alimenti pronti o la diminuzione della quantità di zucchero nelle bibite. Nel primo caso tutta la popolazione viene protetta dal rischio di sviluppare forme di ipertensione indipendentemente dal rischio individuale e nel secondo caso si mira a contenere il rischio di sovrappeso e obesità. 

La prevenzione secondaria (3) invece quella che si propone di identificare e trattare le malattie prima che si sviluppino o che si aggravino e si articola in misure come gli screening, siano essi oncologici vascolari o metabolici in modo da ottenere una diagnosi precoce prima che i sintomi si siano sviluppati e impostare tempestivamente un trattamento che possa interferire con la malattia. Ne fanno parte anche le vaccinazioni contro l’HPV e gli screening per il tumore della cervice, in modo da intercettare tempestivamente lesioni precancerose e trattarle prima che si sviluppi il cancro. 

Questa accezione è differente da quella più comunemente intesa che vuole evitare patologie sovrapposte, ulteriori o ricadute in soggetti che abbiano già avuto diagnosi importanti. 

Fanno parte invece del terzo (4) livello di prevenzione tutte le misure che cercano di ridurre le conseguenze delle malattie : la disabilità o le ricadute di di eventi acuti con azioni di riabilitazione e riduzione della disabilità. 

Nella prevenzione terziaria, una malattia pregressa, di solito cronica, viene trattata allo scopo di prevenire complicanze o ulteriori danni che potrebbe causare. Ad esempio, la prevenzione terziaria del diabete si fonda su un attento monitoraggio della glicemia, un’eccellente cura della pelle, esami del piede frequenti e un’attività fisica costante, al fine di prevenire le malattie cardiovascolari. La prevenzione terziaria per un soggetto che ha avuto un ictus potrebbe prevedere l’assunzione di aspirina per prevenire l’insorgenza di un secondo episodio. 

La riabilitazione in particolare è un processo fondamentale per rieducare l’individuo e portarlo ad un nuovo livello di abilità funzionale tramite strategie mediche e sociali e psicologiche e parte della prevenzione terziaria è quella dedicata alla prevenzione delle complicanze della malattia originaria intesa con il termine disease management.

Esiste poi una prevenzione quaternaria, aggiunta di recente in cui l’obiettivo é evitare gli effetti da ipermedicalizzaione. o di pratiche mediche non strettamente necessarie; per esempio ridurre l’uso di farmaci in malattie lievi. L’idea di base è quella di evitare eccesso di diagnosi del paziente e l’accanimento terapeutico.

Abbiamo visto quindi come ci siano 1,100, 1000 prevenzioni possibili a cui si aggiunge, infine, la prevenzione o protezione ‘parziale’, concetto ancora poco diffuso, introdotto per la prima volta nel mondo dell’HIV: che si tratti di preservativi, un vaccino antinfluenzale, PrEP orale o anello vaginale, i prodotti non hanno sempre un 100% di protezione contro le malattie. Si punta quindi ad una una protezione imperfetta ma ancora utile. Dal COVID-19 all’HIV, combattere le malattie contagiose implica ricerca e sviluppo nel trattamento e nella prevenzione che possono portare risultati concreti che aiutano molto, ma non risolvono l’intero problema. Le scoperte mediche possono essere importanti. Possono migliorare notevolmente la salute pubblica, anche se non sono perfetti. La questione è stata sollevata negli Stati Uniti relativamente ad un nuovo vaccino per l’HIV, chiamato RV 144: le prove di efficacia su 16.000 persone alla fine di tre anni e mezzo hanno mostrato una protezione del 31%. Troppo poco? O comunque sufficiente?

Quando esaminiamo i modelli sul tipo di impatto sull’epidemia che avrebbe un vaccino parzialmente protettivo per l’HIV , speriamo in un’efficacia almeno del 60%. Ma sull’argomento Antony Fauci ha detto che si accontenterebbe del 50-55 percento di protezione contro l’HIV. 

Discorso analogo per quanto rigguarda i vaccini: nessun vaccino protegge  al 100%, ma una efficacia parziale permette comunque di proteggere le persone dalle forme più gravi delle malattie.

Infine, dobbiamo  insegnare agli aspiranti medici la scienza che affronta i determinanti psicologici, sociali ed economici della malattia. Non più limitata al danno d’organo, compressa, ma che preveda la valutazione ampia del contesto e superamento degli ostacoli che hanno portato alla malattia e che potrebbero causarla nuovamente. Più di vent’anni fa venne coniato l’acronimo BEING per indicare le cause prevenibili delle malattie e riconducibili a fattori di varia natura: da quelli biologici e comportamentali a quelli ambientali, immunologici, nutrizionali, genetici e sociali e oggi siamo entrati nell’era del One Health in cui i destini umani, animali e dell’ambiente sono inevitabilmente intrecciati tra loro. Un’era in cui alcuni eventi percepiti come imprevedibili possono essere affiancati da strategie preventive nei diversi livelli purché si inizi a guardare ai soggetti sani da proteggere prima che le malattie si manifestino. 

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