
Dalla medicina industriale a quella artigianale, la diagnosi vista in ottica ‘slow’
Di Andrea Gardini, medico, co-fondatore e segretario nazionale Slow Medicine
Bell’argomento, la diagnosi.
Anche migliore quello del bisogno di una diagnosi, quale che sia, che per molti versi è un argomento poco esplorato.
Sorgono tante domande cui provare a rispondere, provvisoriamente, con ulteriori domande e con poche risposte definitive, molte descrizioni di fenomeni che si osservano nell’esercizio della medicina.
Che cos’è la diagnosi? E’ una parte del percorso diagnostico/terapeutico che inizia con la percezione di un fastidio da parte di una persona.
Ai tempi della medicina artigianale si può dire, con ragionevole probabilità di essere nel vero, che fosse solo così. I medici venivano quotati a livello popolare se erano dei “bravi diagnostici” e la loro fama si diffondeva fra paesi, città e campagne, e affollava i loro ambulatori. Bellissima la storia, fra l’8 e il 900 di Axel Munthe, un medico svedese allievo di Charcot, di grande successo a Parigi e poi a Roma, abilissimo nel fare diagnosi di “colite” alle ricche ed annoiate signore delle capitali europee, ben descritta nella sua autobiografia, “La storia di san Michele”.
Solo dopo l’avvento dell’era antibiotica nei primi anni ’40, con la scoperta e l’uso della penicillina, da parte di Alexander Fleming, la diagnosi di un’infezione acuta batterica poteva essere seguita da un trattamento efficace e da una possibile guarigione, allora quasi miracolosa. Prima le diagnosi pure si facevano, ma non potevano essere seguite da trattamenti efficaci, al massimo le persone guarivano da sole, a volte no, e i medici si avvalevano del solo effetto placebo per dare lustro alla loro fama.
Man mano che sulle malattie dell’uomo si è saputo qualcosa di più: la diagnosi di diabete ad esempio, è stata seguita da trattamenti sempre più efficaci con l’insulina – quella di neoplasia da trattamenti chirurgici, radioterapici e chemioterapici combinati che hanno aumentato la sopravvivenza dalla diagnosi, ed in qualche caso, la guarigione. Gli esempi entusiasmanti dei successi nei trattamenti della leucemia linfatica acuta, della talassemia e della fibrosi cistica nei bambini e del Morbo di Hodgkin in tutte le età sono storie confortanti e bellissime. Per altre malattie dell’uomo alla diagnosi però non sta ancora seguendo una terapia adeguata ed una guarigione. Il bisogno di una diagnosi, comunque, sembra indispensabile, anche se a volte segnala la confessione di una impotenza.
Ai tempi attuali nei quali, a parità di contesto stabile e di risorse disponibili, si è resa possibile, qui e la nel mondo, una medicina industrializzata, spesso la diagnosi viene affidata alle macchine ed agli algoritmi mentre ai medici viene chiesto di prendere atto dei risultati degli esami e prescrivere trattamenti che siano coerenti con gli esiti della ricerca più avanzata, dettati da linee guida standardizzate scritte, non senza conflitti d’interessi con le case produttrici, dalle società scientifiche. Ma quando il contesto non è più stabile, come in una guerra, e le risorse non diventano più tanto disponibili, perché destinate tutte alla difesa, succede che, alla diagnosi, ad esempio, di insufficienza renale cronica, non segua più il trattamento dialitico, che necessita di materiale sempre rinnovato di macchine costose e di personale specializzato disponibile, e, com’è successo negli anni in Bosnia, in Serbia, paese aggressore della guerra nella ex Jugoslavia e in Siria, le persone in quella condizione muoiano.
Nella “medicina industrializzata” c’è stato un passaggio che in questo nostro tempo si è sviluppato: l’avvento dell’industria della diagnosi precoce, con il check-up gli screening, espressioni della cosiddetta “prevenzione secondaria”.
E’ noto, ad esempio, da importanti ricerche di popolazione, che lo screening del carcinoma della cervice uterina tramite il pap test periodico, quello del carcinoma della mammella tramite autopalpazione e mammografia periodica, quello del carcinoma del colon, tramite esame periodico delle feci alla ricerca di sangue occulto e successiva eventuale colonscopia possono essere utili a scoprire un carcinoma in fase di crescita che, una volta tolto chirurgicamente vede ridotto il pericolo di ammalarsi nelle persone colpite. Una buona cosa, che ha creato l’idea che si possa fare così con molte altre condizioni.
Questa idea di diagnosi precoce per queste condizioni ha creato però, per alcune situazioni, più danni che benefici. Sono innumerevoli le prostatectomie nel mondo eseguite in seguito alla scoperta di un enzima nel sangue, che si evidenzia con un carcinoma della prostata, ma “anche” con altre condizioni benigne, e, si sa, molte persone private della prostata possono avere conseguenze come perdite incontrollate di urine o impotenza, conseguenze di una diagnosi eccessivamente allarmante, quella che gli anglosassoni definiscono “overdiagnosis.”
Questa anche supportata da una biopsia prostatica che scopre, come succede a tutti i maschi sopra i 60 anni, un “carcinoma in situ”, un piccolissimo groviglio di cellule della ghiandola prostatica mutate e confinate dalle nostre difese in un recesso dell’organo. Non si può sapere se queste cellule invaderanno l’organo, nè quando. Così se “per sicurezza” ad una persona anziana si propone di liberarsi del dubbio, e magari si crea un’incontinenza, da overdiagnosis seguita da un overtreatment, comunque la vita di quella persona, dopo l’intervento, non sarà più la stessa. E forse senza motivo.
A volte i risultati della “prevenzione secondaria” diventano sentenze del passaggio di una persona da uno stato di salute ad uno di presunta o confermata malattia, rinforzato dalla tecnologia che, per definizione dedicata al pubblico anche da interessanti trasmissioni televisive, “non può sbagliare”.
Nel caso della medicina artigianale, la diagnosi è preceduta da alcuni passaggi obbligati. La persona (che non è ancora “paziente”) che accusa un sintomo può tenerselo e non approfondire, sopportare, aspettare che passi da solo, come spesso il più delle volte, succede. Il nostro corpo ha grandi capacità di autoguarigione dalle condizioni passeggere, quelle che il nostro compianto Giorgio Bert chiamava “acciacchi”. Se la nostra persona con gli acciacchi desidera approfondire, non è detto che vada sempre dal medico. Spesso questa è l’ultima opzione dopo aver consultato una gamma più o meno vasta di consiglieri, famigliari, amici e così via, Se il sintomo persiste si prende un appuntamento dal medico e si entra in uno studio, un ambulatorio dove si trova una persona in camice bianco. Pochi medici ancora si presentano con il proprio nome e cognome ( “Buon Giorno Io sono”…. Come dice una campagna lanciata da Slow Medicine nel 2017).
La persona in camice bianco si suppone abbia studiato come si fa ad arrivare ad una diagnosi e che, oltre ad averlo studiato, lo applichi con gusto, empatia e piacere intellettuale su ogni singola persona che si presenta alla sua attenzione. Secondo i testi classici di medicina artigianale per prima cosa si fanno “una buona anamnesi ed un buon esame obiettivo”. L’anamnesi si prende ascoltando un paziente che racconta da che famiglia e, eventualmente, da che Paese viene (anamnesi famigliare), che lavoro fa o che lavori ha fatto (lavorativa) com’è stato finora (fisiologica e patologica remota), che cos’è che lo ha portato in ambulatorio (patologica prossima). Non c’è anamnesi senza ascolto attento del paziente e approfondimenti con domande precise anche sulle sue abitudini di vita. Si sta ad ascoltare la persona quanto basta per una reciproca e soddisfacente conoscenza orientata alla prosecuzione del processo diagnostico e, eventualmente, terapeutico ed alla possibile soluzione del problema, provando a guidare, con gentilezza e tatto il racconto. A volte qualche pausa con un riassunto “per capire se ho capito bene”, può essere utile, per riordinare le idee.
Nel ’93 il congresso dell’Associazione fra i Medici Cattolici si concludeva con una dichiarazione affidata alla Stampa in cui si affermava che prolungare di almeno 10 minuti più del consueto l’ascolto del paziente poteva aumentare di molto la probabilità di comprendere il problema della persona, riducendo di molto la necessità di ricorrere ad esami strumentali.
Al colloquio segue un buon esame obiettivo.
Visitare la persona dalla testa ai piedi, privilegiando la sede del fastidio, dell’acciacco, ha bisogno di un certo tempo, di mani calde e non intrusive, di attenzione, rispetto, silenzio, ascolto e cura dei particolari. E’ bene rinunciare alla semplice ritualità del gesto, spesso origine dei problemi, ma le varie manovre vanno fatte con premura. “Una persona, se la vuoi visitare, devi visitarla tutta. Proprio tutta”, diceva un mio Maestro di medicina, Ferdinando Gobbato.
Anamnesi ed esame obiettivo, fatti così, nella medicina artigianale, possono durare parecchio tempo. Non si fanno in un luogo organizzato con i “tempari” imposti ai medici da un cosiddetto “manager” che ha lavorato in una fabbrica. I tempari fanno male al rapporto di cura.
Anamnesi ed esame obiettivo non portano, di per sè, dritti alla diagnosi, ma solo ad una ipotesi diagnostica. E allora, sulla base di quell’ipotesi, si cercano delle conferme strumentali, se servono. Mai incaponirsi subito sull’ipotesi diagnostica. Si prendono delle cantonate mai viste. Lo stesso succede nella vita quotidiana.
Laboratorio e diagnostica per immagini non “fanno” la diagnosi da soli, ma “confermano“ o “smentiscono” l’ipotesi formulata dal medico al momento della visita, ed i loro risultati vanno comparati con quanto il medico, assieme alla persona visitata, ha riscontrato con il colloquio e la visita. Se i risultati degli esami non sono coerenti con questi ultimi non è detto che abbia per forza sbagliato il medico nella sua relazione con la persona. Forse anche gli esami possono essere sbagliati. Succede. Per ogni esame ci sono i falsi negativi ed i falsi positivi, anche se negli ultimi anni i laboratori e i sistemi di gestione del rischio clinico hanno fatto molta attenzione ad evitare queste evenienze, comunque sempre possibili. Solo l’anatomopatologo ci aiuta a capire che cos’ha la persona che stiamo studiando. A volte le biopsie e le loro analisi sono dirimenti. Nell’uno e nell’altro caso non è detto che la parola “sbagliare” sia quella giusta.
Il processo diagnostico può essere complesso, e più o meno lungo, a seconda della condizione e della persona. Un fatto acuto cardiovascolare necessita di tempi diagnostici molto stretti, tant’è vero che per la diagnosi di infarto acuto del miocardio già gli infermieri che, in qualche organizzazione sanitaria ben orientata, ti vengono a recuperare nel luogo dove l’infarto è avvenuto, ti fanno l’ECG con un apparecchio di registrazione che trasmette l’esame direttamente in Unità coronarica, dove poi trasportano il paziente direttamente senza passare per il Pronto soccorso, affinché l’intervento terapeutico sia fatto prima possibile. In questo caso il processo diagnostico è altamente standardizzato, dev’essere velocissimo, e rientra a buon titolo nella buona medicina “industriale”. Una persona che invece porta i sintomi di una sindrome neurologica degenerativa può aver bisogno, per una diagnosi precisa, utile alla cura possibile, di un tempo maggiore e dell’osservazione della sua evoluzione, soprattutto quando le terapie di efficacia dimostrata per quella specifica condizione ancora non ci sono.
Questo avviene nello sviluppo da una buona medicina artigianale nella transizione collaborativa verso una buona medicina industriale, quella che mantiene e si fonda su un rapporto di dialogo, colloquio, fiducia fra il medico e la persona che viene presa in carico, per situazioni più o meno complesse il cui controllo rimane però all’interno della relazione fra medico e paziente, interamente controllato dal loro patto di fiducia, continuamente rinnovato nel corso del tempo. Questo è il possibile rapporto fra la persona ed il suo medico di medicina generale o fra la famiglia e pediatra di libera scelta. E succede, oh, se succede! A volte però si deve poter entrare nel campo della medicina industriale.
Quando infatti la presunta diagnosi arriva in un contesto industriale, di compra-vendita di prestazioni, la situazione diventa diversa. L’obiettivo della ricerca di una diagnosi non è solo il benessere della persona che accusa un sintomo, o che, senza sintomi, si sottopone ad un esame di screening. L’obiettivo secondario può essere anche “fare prestazioni”, un obiettivo, in un ambiente di sanità industriale, legato al concetto di “produttività”, introdotto ormai da tempo nel tentativo di far diventare “aziende” le attività sanitarie pubbliche e quelle private. Troppo spesso questo tentativo si è fondato sulla ricerca dell’efficienza e della produttività di prestazioni, non tanto dell’appropriatezza e dell’efficacia, e sulla compra-vendita di volumi quantitativi di attività. Così, anche il miglior medico, il miglior infermiere non riesce a tener sempre conto dei bisogni di salute della persona, salute che, secondo l’OMS, è un equilibrio dinamico di salute fisica, psicologica, spirituale, sociale e ambientale, che vanno tutte prese in considerazione nella cura.
La disattenzione alla qualità delle cure, quasi obbligata dai ritmi e dai volumi di lavoro imposti da una filosofia meccanicista, riduzionista del management sanitario orientato dall’economia, ha reso difficile, nella sanità industriale, l’impegno etico dei singoli professionisti e delle equipes nell’applicazione integrale del loro codice deontologico dettato dalla bioetica, che indirizza le professioni ad una visione sistemica della cura.. E’ successo che “la degenerazione burocratica dei principi della qualità ha generato strumenti tossici” come affermato dal grande esperto di qualità dell’assistenza sanitaria di Harvard, Rashad Massoud, allievo di Donabedian. La qualità in tutti gli aspetti della formulazione di una diagnosi condivisa con i pazienti richiede tempo (il tempo di relazione è tempo di cura). Questa, contemporanea a tagli lineari nel finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale sembra l’essenza della sua grave crisi. Il SNN è stato proposto dalla 833/78 per migliorare la salute dei cittadini italiani, non per farne solo oggetto di prestazioni e di mercato come poi è successo per carenza di cultura della salute. Nel corso del tempo la situazione è peggiorata dopo la crisi economica del 2008, e la “diagnosi” è diventata quasi un pretesto per far fare, nel servizio pubblico ed in quello privato, prestazioni, esami, controlli, generare liste d’attesa che spingono a convenzioni con strutture private, “purché si faccia per farmi rieleggere”, senza tener conto se quelle prestazioni siano appropriate per la condizione di quella persona. Il “prestazionificio” poi ha generato ulteriori liste di attesa, che generano l’acquisto di ulteriori macchine per fare diagnosi, che sempre più raramente servono per migliorare lo stato di salute ed il benessere delle persone, diventate “pazienti obbligati” anche per la contemporanea distruzione dei servizi di prevenzione e di quelli di cure primarie. La condizione di “paziente obbligato” è già stata descritta in un profetico lavoro teatrale di Jules Romains debuttato 99 anni fa, “ Knock, o il trionfo della medicina”, che val la pena rivedere. Il fenomeno, è stato ben descritto da una serie di articoli pubblicati sul Lancet l’8 gennaio 2017 firmati dalla Right Care Alliance.
La medicina industriale, inoltre, tende a generare nei Paesi industriali, esami di screening, o i check up, che spesso portano a trovare difetti clinicamente irrilevanti negli organi delle persone, chiamati in questo caso “ incidentalomi”, che però generano ulteriori controlli, esami, altri controlli, altri esami, in un processo produttivo che poco ha a che fare con la salute effettiva della persona coinvolta, Questa, spesso, non ha mai accusato sintomi, ma è solo incappata in un ben organizzato processo di marketing, fatto, non ho dubbi in proposito, anche “per il suo bene”.
Il fenomeno che si osserva è che poi la stessa persona coinvolta si appassiona alla ricerca del motivo del proprio malessere ( tutti abbiamo, prima o poi, un malessere, soprattutto quando abbiamo il privilegio di invecchiare), e, se ne ha la possibilità, comincia a generare quell’altro fenomeno conseguente del “ doctor shopping” quel fenomeno ben descritto da Nanni Moretti in “ Caro Diario”, film che si conclude con una diagnosi vera e grave, fortunatamente superata da una buona medicina, ma che quasi sempre nella realtà invece è proprio stimolato dal marketing della paura di quella malattia grave, che invece non c’è. A volte si generano condizioni che hanno un nome, un complesso vario di sintomi, che diventano sindromi e poi, chissà come, malattie, che si riscontrano dalla completa assenza di evidenze derivanti da test o esami, che la medicina ancora non ha trovato. E dentro quelle condizioni vengono classificati i cosiddetti pazienti, che non ci rinunceranno più. Come 100 anni fa, con la colite del buon Axel Munthe. Buffo, no? Oppure drammatico. Abbiamo bisogno di una diagnosi. La diagnosi diventa parte della nostra identità, ci viene spesso venduta da un accorto progetto di marketing cui assistiamo alla televisione fra un pezzo di film e un altro, e non possiamo più metterla in discussione. Ne restiamo orfani se qualcuno ci prova e ci ribelliamo con cattiveria rivendicandone il diritto. Una diagnosi a volte è uno strumento di potere, e di sopravvivenza economica di persone che non hanno niente altro per provare a difendersi da un mondo che non li aiuta a vivere. Anche se non c’è.