Feriti di guerra, ecco i protocolli che salvano la vita ai soldati

di Andrea Lupoli

A quasi un mese dal conflitto che ha riportato la guerra in Europa, quello fra Ucraina e Russia, sono sempre di più i morti e i feriti che si contano fra i due schieramenti. L’impiego di armi termobariche, capaci cioè di creare fortissime onde d’urto e di sprigionare temperature elevatissime all’impatto al suolo, ha riportato l’attenzione sul tema dei feriti in battaglia e delle drammatiche conseguenze successive ad un conflitto. Di lesioni traumatiche in guerra e della gestione dei militari colpiti ne ha parlato il Dott. Emilio Giannarzia, Capitano di Corvetta della Marina Militare, intervistato per noi.

La guerra cambia volto in base agli scenari ma anche in base alle scelte belliche che vengono fatte. C’è per esempio differenza fra la guerra in Afghanistan e quella in Ucraina?

Gli scenari di ogni tipo di conflitto sono mutevoli, non c’è mai un conflitto simile ad un altro anche per ambienti, per difficoltà, situazioni climatiche e moltissimi altri motivi. Le conseguenze che si possono riscontrare cambiano in base al conflitto

L’attrezzatura dei militari ha cambiato il tipo di lesione? Penso alle corazze che proteggono il tronco

Le statistiche ci dicono che abbiamo un minor numero di morti di soldati in guerra sia grazie alle protezioni che sono state sviluppate nel tempo, sia alle migliori capacità sanitarie e protocolli che vengono organizzati. La protezione degli organi vitali del busto, gli elmetti, insieme alle tecniche sanitarie che si sono evolute hanno portato, nonostante l’impiego di armi con maggior potere offensivo, ad una riduzione dei morti in battaglia con ferite diverse. In Afghanistan la maggior parte delle ferite erano degli arti, le parti più esposte, con le mine anticarro artigianali l’esplosione dal basso portava a gravi emorragie massive degli arti inferiori. Intervenendo con i C.A.T (Combat Application Tourniquet), un particolare tipo di laccio emostatico da combattimento, si è riusciti a ridurre i morti per questo tipo di ferite e in questo tipo di scenari.

Quali sono le lesioni che si riscontrano di più in guerra?

Tutte quelle da armi da fuoco, caratteristiche di ogni guerra. Le ustioni, le esplosioni portano alle ustioni che possano essere estremamente gravi. Quando superano il 20 – 30% di superficie corporea abbiamo una ustione grave che può mettere in serio pericolo di vita il militare coinvolto sia per perdita di liquidi che per motivi infiammatori e infettivi.

C’è chi dice che oggi ci sia più la volontà a ferire, mutilare, piuttosto che uccidere. Un modo per creare un problema permanente nel soldato e per lo stato che dovrà occuparsi di lui

Da un punto di vista psicologico l’impatto di un commilitone ferito, mutilato, ha un peso psicologico sulla truppa molto forte, spesso più del decesso vero e proprio. Questo perché ti mostra un handicap così gravoso che è psicologicamente più difficile da gestire rispetto alla morte.

Parlando invece degli ospedali da campo, ma anche del trasporto dei feriti, le nuove tecnologie e conoscenze quanto hanno cambiato le cose?

Hanno avuto un impatto sicuramente sui tempi. La maggior parte dei morti in battaglia avviene nei primi 10 minuti. Nel passato si impiegava molto tempo prima di poter portare un ferito in un punto di soccorso iniziale e il ferito arrivava morto. Ora tutto è cambiato, passando dalla “Golden Hour” l’ora d’oro per salvare il soldato, al “Platinum Minutes” al minuto di Platino appunto, dove se riesco ad intervenire tempestivamente si riduce di molto la mortalità. Per questo oggi si insegnano tecniche di primo soccorso anche a personale non sanitario, ai militari stessi che possono così intervenire subito sul compagno ferito. Successivamente, prima si riesce ad evacuare il paziente migliori saranno le sue probabilità di sopravvivenza. Oggi dopo un’ora il ferito si deve trovare in un centro medico attrezzato e in due ore presso una struttura chirurgica ancora più avanzata per salvarlo e curarlo.

Gli ospedali da campo riescono a prestare questo tipo di cure?

In generale più che di ospedali dobbiamo parlare di “assetti”, nella NATO abbiamo tre tipi di assetti (sarebbero quattro ma nel teatro operativo si arriva a tre assetti): Il primo assetto si chiama “Role 1” dove si possono fare solo manovre di stabilizzazione del paziente. Manovre salvavita e un primo soccorso senza capacità chirurgiche. Questo avviene fra le linee più avanzate. Successivamente abbiamo il “Role 2” primo assetto con capacità chirurgiche composto da un team di specialisti come l’anestesista, l’ortopedico, il chirurgo, c’è un laboratorio analisi che permette di fare diagnostica da un punto di vista ematologico, c’è la possibilità di fare un RX o una ecografia. Abbiamo quindi dei supporti diagnostici che permettono appunto una diagnosi migliore e un team che può intervenire chirurgicamente. Interventi mirati per controllare il danno senza risolvere però ancora completamente il problema. Per esempio riparo una milza ferita ma affido poi il paziente al “Role 3”, in questo assetto abbiamo specialità chirurgiche e diagnostiche ancora più avanzate. E’ qui che troviamo per esempio il cardiochirurgo o il neurochirurgo. Qui si possono fare poi esami diagnostici più avanzati come una risonanza magnetica o una TAC. Il “Role 4” è solitamente situato presso la nazione di appartenenza del soldato ed è l’assetto conclusivo dove abbiamo un ulteriore grado di potenziamento della medicina. Un esempio di Role 4 è il policlinico Celio di Roma. In Italia il Celio è il Role 4 di tutti i militari. I trasporti fra i vari assetti avvengono sia su mezzi non adibiti per quello scopo sia su mezzi invece strutturati proprio per i feriti. Attualmente la maggior parte dei trasporti avviene con elicotteri MedEvac con all’interno strumentazioni che permettono di proseguire le cure anche in elicottero.

Quindi la formazione dei medici in ambito della medicina militare è fondamentale?

Assolutamente si e lo dico da Direttore del corso di medicina di combattimento della Marina Militare. Corso che si tiene a Brindisi presso la Brigata Marina San Marco. Qui formiamo medici e infermieri proprio al soccorso dei militari in battaglia. Diamo tutta una serie di nozioni sanitarie e tattiche operative che permettono al sanitario militare di potersi destreggiare in determinate situazioni di battaglia. Siamo giunti alla 23esima edizione, è un corso nato nel 1988 e formiamo militari anche di altre forze armate e all’estero. E’ l’unico in Italia che si occupa di medicina tattica e militare con formazione anche all’autodifesa perché purtroppo con le guerre asimmetriche il sanitario è visto come un obiettivo a tutti gli effetti, da colpire per smantellare l’aspetto sanitario ed impedire così il supporto agli altri feriti.

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