
Se “Il Problema” Alzheimer arriva in teatro… Una conversazione con Paola Fresa
(di Anna Benedetto)
Torna in scena al Teatro Piccolo Bellini di Napoli – a partire dall’1 febbraio – lo spettacolo “Il Problema”, scritto e interpretato da Paola Fresa e prodotto da Fondazione Sipario Toscana.
Segnaliamo le date romane:
Sabato 28 maggio ‘22| h. 21|Teatro Biblioteca Il Quarticciolo|Roma|
Domenica 29 maggio ‘22| h. 17|Teatro Biblioteca Il Quarticciolo| Roma
Il problema – con la “P” maiuscola – a cui fa riferimento il titolo è la malattia di Alzheimer, che ha colpito il padre dell’autrice (ed attrice della piece) coinvolgendo l’intero nucleo famigliare in una “crisi di identità” collettiva, messa inscena dai coprotagonisti Nunzia Antonino, Michele Cipriani e Franco Ferrante.
Prima di andare a vedere lo spettacolo, abbiamo deciso di fare una chiacchierata con Paola Fresa ripercorrendo la sua esperienza di caregiver familiare che, all’appuntamento che la vita le ha riservato con questa malattia, si sia presentata con la valigia (e il taccuino) dell’attore.
Che cos’è “Il Problema”?
Quando ho redatto il testo, ho scritto “Problema” con la P maiuscola e a questa maiuscola ci tengo particolarmente. Il Problema è una bomba che capita nella casa di tante persone, nella vita di tante persone. È una sindrome, una malattia, molto misteriosa e affascinante perché, come gran parte delle questioni che riguardano la nostra mente, è in parte sconosciuta nei suoi meccanismi più profondi. Possiamo coglierne quelli che sono i sintomi esterni, vederne gli effetti attraverso una TAC, una radiografia, un esame specifico della testa ma – per quanto ci si applichi – siamo tuttora molto impreparati all’effetto detonante del problema. Perché è un accadimento talmente sconvolgente da cogliere impreparate anche le persone più centrate e lucide.
È una prova molto importante nella vita di una persona, nella sua rete di affetti, nella sua vita sociale, nella capacità di accettare il fatto che nella sua straordinarietà però è “normale”, nel senso che fa parte della vita. Per quanto ci sia un’ingiusta tendenza a negarlo, esiste nell’esperienza di tantissime persone ed è la ragione principale per cui io credo fermamente nel fatto che se ne debba parlare.
So che tu hai vissuto questa esperienza in qualità di figlia di un padre affetto da Alzheimer. E tu sei una figlia ma anche una donna di teatro. In che modo il teatro ti è servito durante la malattia? Dopo ovviamente ti è servito per dare alla luce lo spettacolo, ma mi interessa sapere se e come hai adattato lo “strumento” teatro all’interno della dinamica della malattia e della relazione con tuo padre.
Durante il periodo della malattia di mio padre, l’Alzheimer ha cancellato qualsiasi altra cosa. Io ho continuato ad esercitare la mia professione ma solo fino ad un certo punto, superato il quale questa esperienza era talmente invadente nella mia vita che non mi ha consentito o probabilmente io ho deciso – non so dire con certezza quale sia il confine tra l’impossibilità e la scelta – di non continuare ad esercitare il mio mestiere.
Perché volevo stare accanto a mio padre, perché era un pensiero che non mi abbandonava mai. Da allora mi sono dedicata alla cura di mio padre: per periodi sempre più lunghi arrivavo in Puglia, a Bari, dove risiedevano i miei e via via le mie permanenze sono diventate sempre più lunghe parallelamente al decorso della malattia di mio padre.
Ma essendo entrambe – sia la malattia di mio padre che il mio lavoro – due diverse forme di “ossessione” nella mia vita, lo spazio che la malattia aveva levato al teatro il teatro se l’è ripreso una volta che io sono arrivata a casa di mio padre ed ho iniziato a tenere questo diario che in qualche modo mi era utile per ancorarmi alla realtà.
E questa mia abitudine mi è stata di grande supporto: per deformazione professionale io credo fortemente nel potere curativo della parola, quindi poter verbalizzare non solo gli accadimenti ma anche le emozioni correlate a quegli accadimenti era per me è un modo per contenere la violenza del sentimento che in quel momento vivevo. È stato inoltre un modo per familiarizzare con questa cosa che – come tutti – umanamente abbiamo rifiutato perché, prima di ammettere che ci stava succedendo, ci abbiamo messo del tempo.
E quindi in qualche modo il teatro si è ripreso il suo spazio attraverso la scrittura, nella compilazione quotidiana di questo diario, utile per elaborare in maniera lucida quello che stava avvenendo. Questo diario è stato poi messo in un cassetto dopo la morte di mio padre e ripreso a distanza di un anno, rielaborato in termini creativi, integrandolo con esperienze che non erano esplicitamente della mia famiglia per raccontare una esperienza che era estremamente intima, in quanto familiare, ma al tempo stesso universale e condivisa da tantissime persone.
Quanto tempo è durato il decorso dalla diagnosi fino alla morte di tuo padre?
Io lo dico con assoluta franchezza e senza pudore: fortunatamente è durata poco, perché mio padre è morto alla fine a causa di un infarto, in un momento in cui ancora camminava ma la malattia stava iniziando ad intaccare anche il corpo. Infatti non riusciva a ingoiare cibi solidi (come succede a molti malati di Alzheimer) e, benché si alimentasse con frullati, gli capitava spesso di strozzarsi. Chiaramente il principio di soffocamento lo spaventava ed il 27 gennaio del 2013 il cuore non ha retto ed è morto.
Com’è possibile drammaturgicamente raccontare un luogo che non sembra accessibile, ovvero il punto di vista di un malato di Alzheimer?
Io drammaturgicamente mi sono data come compito quello di attenermi esclusivamente ai fatti percepibili da noi esterni alla malattia. Quindi il racconto segue un’ impronta oggettiva e realistica degli accadimenti che caratterizzano il decorso di un caso di Alzheimer.
Mio padre era di per sé un uomo molto silenzioso, grandissimo ascoltatore, estremamente empatico, con un grandissimo istinto nel riconoscere le persone: parlava poco ma quando parlava solitamente diceva cose memorabili.
Durante la malattia, caratterizzata dalla progressiva difficoltà ad articolare discorsi di senso compiuto, queste frasi sono diventate appunto delle stazioni indimenticabili delle esperienze che abbiamo fatto tutti intorno a lui. Ed erano anche delle finestre sul tuo stato d’animo. Io credo che lui fosse consapevole da tempo. Lui ha cercato di resistere a questa cosa, come probabilmente capita a tutti: era un uomo strenuamente volitivo ed ha cercato di negare a se stesso e a noi il fatto che stesse accadendo. Ha cercato di prestare fede a quello che era il suo ruolo – quello di un padre vecchio stampo – fino all’ultimo.
E devo dire che ci è uscito anche durante la malattia. In queste singole frasi io ritrovavo mio padre e avevo la possibilità di capire quello era il suo punto di vista rispetto all’esperienza che stava vivendo come uomo. Mio padre era barese, ed era innamorato del mare: starne lontano per lui era una sofferenza enorme. Quando volevamo farlo felice lo portavamo a mangiare al mare. Viene da lì una delle frasi che ho inserito in drammaturgia: è l’unico momento in cui il protagonista rompe la quarta parete e parla al pubblico ed in quel momento non è più un malato.
Alla mia domanda “Sei contento, papà, di questa giornata?”, lui mi rispose “Io voglio solo vivere la mia vita e questa non è la mia vita”. Per me in quel momento era chiarissimo il fatto che lui fosse consapevole di quello che gli stava accadendo.
Ci parli della “crisi d’identità” che vive un malato di Alzheimer e che invade di conseguenza anche i suoi familiari, progressivamente privati da questa patologia del riconoscimento del loro “ruolo”. Hai mai messo in qualche modo in discussione il tuo ruolo (in famiglia e nel mondo esterno, relazionale e lavorativo) nell’iter della malattia di suo padre?
Per me è stato un passaggio fondamentale della mia esperienza di vita, come artista e come persona. Io sono “la piccola di casa” e l’Alzheimer mi ha messo nella condizione di rinunciare a questo ruolo, cosa che ha comportato non poca fatica, ma era tale l’amore che avevo verso mio padre che la difficoltà più grossa non è stata prendermi cura di lui ma accettare che stesse succedendo proprio a lui.Rispetto al ribaltamento dei ruoli, io ricordo di avergli gridato contro in un giorno di particolare esasperazione “Perché mi stai facendo questo?” e lui sbalordito mi ha risposto “Ma io non sto facendo proprio niente”.
E di fronte a questa risposta che ti disarma, tu capisci che – tuo malgrado – la vita sta facendo il suo corso ed è previsto che tu dismetta i panni che ti sono stati comodi per una vita, perché fa parte del percorso.
Ho fatto molta fatica anche con mia madre, perché chiaramente i coniugi sono quelli che risentono maggiormente di questo ribaltamento dei ruoli; però proprio per l’amore che ci legava a lui ci siamo trovati a vivere esperienze che non pensavamo fossero previste per noi. Sotto certi punti di vista è anche una fortuna, perché ti mette nella condizione di scoprire risorse di cui non sei neanche consapevole.
A proposito di “ruoli”, parliamo della figura del “matto” a teatro. Nel teatro classico la pazzia è una forma di punizione divina, in quello moderno è invece la forma più anticonvenzionale di saggezza: il “fool” shakespeariano si può permettere di scoperchiare la realtà e sovvertire il Potere. E tu che senso hai dato a questa “follia”, come essere umano e come autrice di teatro?
Tra i miei intenti, attraverso questa rappresentazione, c’è quello di scoperchiare quelli che sono dei vizi e dei limiti della società in cui viviamo, le ipocrisie del sistema sociale intorno al malato e alla famiglia del malato. Lo spettacolo a livello spaziale è gestito tra un dentro e un fuori: un dentro che è la malattia all’interno del recinto domestico abitato dal nucleo familiare ed un fuori che è rappresentato da tre figure interpretate da un unico attore. Questo terzo attore rappresenta la società al di fuori della malattia e del nucleo familiare, che dovrebbe in qualche modo soccorrere i personaggi di madre padre e figlia in questa vicenda.
Volevo appunto mostrare il paradosso di determinate meccanismi che negano l’evidenza di un fatto – che è appunto la malattia mentale – applicando schemi rigidi e dimenticando quello che è il lato umano della malattia.
Sicuramente in questo senso c’è anche una ripresa della follia in termini “classici”, ovvero come punizione. C’è un monologo che io ho inserito non nel testo originale ma in fase di adattamento: un dialogo che io rivolgo a un dio che non c’è. La figlia si chiede proprio esplicitamente perché a suo padre, perché non a qualcun altro. ‘Perché’ è una domanda che ti fai.
…Che alla fine diventa un “perché a noi”: te lo sarai chiesto in relazione a te stessa come vittima designata di questa cosa?
Sì, infatti la figlia chiede a Dio “Pensi davvero di renderci migliori, torturandoci come stai facendo?”. E però la risposta è il silenzio. Nella vita ognuno risponde sulla base della propria coscienza. Io ad esempio, dopo la malattia di mio padre, non credo più. Non che prima fossi una grande credente o provenissi da una famiglia molto religiosa, però l’assenza di risposte a queste esplicite domande ha messo fortemente in crisi la mia idea di giustizia divina.
Però ho un grandissima ammirazione verso chi riesce a conservare la fede anche di fronte a queste esperienze. Io non ho questa grandezza d’animo e continuo a viverla come un’ingiustizia inspiegabile.
In un’intervista hai citato la frase “il corpo ha più memoria della mente”. Sappiamo che questa è una malattia in cui progressivamente il cervello perde letteralmente peso e “svanisce”. Mi chiedevo se, alla luce della tua esperienza in 4 anni di malattia, hai ravvisato una forma di “resilienza” anche nella mente di una persona affetta da questa malattia degenerativa? Che modalità di “connessione” hai sperimento con tuo padre? Ci sono delle cose che ti hanno sorpresa da parte sua?
Assolutamente sì, ed è una cosa che si fa molta fatica a credere. Però io sono fermamente convinta che dentro quella bolla che l’Alzheimer crea intorno al malato, ci sia un’anima che resiste e combatte. E a volte dove non arriva la parola, dove non arriva la mente appunto, arrivano il corpo e l’istinto.
Nell’ultimo periodo loro avevano l’abitudine di camminare mano nella mano, cosa che non avevo mai fatto in 40 anni di matrimonio! Però in qualsiasi circostanza si trovassero, quando lui si agitava, a lei bastava dargli la mano per vederlo tranquillizzarsi. Ma al di là di riconoscerla effettivamente sentire la sua mano stretta nella mano di mia madre automaticamente aveva ha un effetto tranquillizzante per lui.
Con me la modalità era differente: quando io ero ragazza, lui aveva l’abitudine di camminare con me mettendomi la mano in mezzo alle scapole, all’inizio del collo. Durante la malattia, io avevo preso l’abitudine a mia volta con lui, quando ci capitava di passeggiare insieme, e sapevo che era il modo che io avevo per farmi riconoscere da lui.
Questo è il racconto di una storia d’amore, il racconto di un’esperienza di vita, il racconto di una famiglia comune, non è il racconto di una malattia. Questa è la vita.

Foto di scena di Andrea Bastogi