
Lockdown, dubbi su efficacia nella riduzione del danno
di Manuela Indraccolo
La risposta che molti paesi hanno dato alla pandemia si può riassumere in una sola parola: lockdown. Se questo abbia funzionato o meno è ancora oggi oggetto di studio. A fare una rassegna dei principali studi sull’argomento, offrendo spunti di riflessione interessanti è stato Vinay Prasad, ematologo-oncologo e professore associato di medicina presso l’Università della California di San Francisco (https://www.ucsf.edu/) in un ampio post pubblicato sul suo blog sul sito di MedPageToday (https://www.medpagetoday.com/opinion/vinay-prasad/91054). “Alcuni studi hanno dato risultati contrastanti”, dice. Un’analisi pubblicata sull’European Journal of Clinical Investigation (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/eci.13484), ha rilevato che le chiusure non sono state associate con una riduzione delle infezioni. Un’altra analisi, pubblicata sulla rivista Science (https://www.science.org/doi/full/10.1126/science.abd9338), ha invece trovato degli effetti positivi nella riduzione dei contagi. “Entrambi gli studi discordanti presentano dei limiti”, scrive Prasad, secondo il quale questo tipo di ricerche in futuro dovranno affrontare una serie di sfide.
Le sfide
In primo luogo, non ci si aspetta che il lockdown produca risultati immediati. “Si deve tenere conto del tipico ritardo prima che un effetto possa manifestarsi realisticamente, ma questo introduce flessibilità analitica”, spiega Prasad. “Dovremmo cercare gli effetti 7 giorni dopo, o 5 o 15? Se guardiamo troppo presto – continua – potremmo farci un’idea sbagliata. In alternativa, se ritardiamo troppo l’analisi, potremmo vedere l’impatto di altri interventi o la forma naturale della curva della pandemia”, aggiunge. In secondo luogo, molto spesso le chiusure vengono istituite insieme al lancio di potenti messaggi mediatici al pubblico. Quindi, potremmo non capire cosa di preciso abbia creato un certo effetto, il lockdown o i messaggi al pubblico? Altro elemento importante è la variabilità con cui nei paesi si è ricorso alle chiusure e questo potrebbe rendere più complicata l’analisi e il confronto dei dati. “A lungo termine, spero che da qualche parte in questo mare di dati, possa esserci un ‘esperimento naturale’ in cui gli analisti possano trarre vantaggi per fare un po’ di chiarezza”, sottolinea Prasad. Il lockdown, in effetti. non è come un’aspirina. “Potrebbe non esercitare lo stesso effetto ogni volta che viene previsto”, sottolinea Prasad. “I lockdown potrebbero avere effetti diversi in base alla frequenza dei casi – continua -. I lockdown potrebbero aiutare quando i casi sono solo una manciata, come a Perth (Asutralia, ndr), nel tentativo di portarli a zero. Oppure i lockdown potrebbero funzionare solo quando i tassi dei casi sono modesti (1 caso per 10.000 residenti). In alternativa, i lockdown potrebbero funzionare quando i tassi dei casi sono elevati (1 ogni 1.000 residenti). Forse i lockdown non funzionano in nessuno di questi casi, o solo nel primo e nel secondo scenario. In altre parole, l’effetto dei blocchi può dipendere dal tasso o dal numero assoluto di casi o da molti altri fattori biologici (ad es. densità di popolazione)”.
Fattore cultura
Le restrizioni, inoltre, potrebbero avere effetti diversi in base alla cultura della regione, alle pratiche delle nazioni confinanti, alla densità delle famiglie o al clima politico. “Ciò che funziona in Norvegia potrebbe non funzionare negli Stati Uniti. Ciò che funziona in Nuova Zelanda potrebbe non funzionare in Canada”, dice Prasad. A giocare un ruolo determinante, sono anche il tipo di interazioni sociali dominanti in una data regione e la copertura mediatica. “Queste considerazioni sono solo alcune delle sfide metodologiche per capire se i lockdown funzionano”, spiega Prasad. Andrebbero anche considerati gli “effetti indesiderati” del lockdown, come quello sulla salute mentale, sull’economia. ecc. Questi “danni”, secondo Prasad, devono essere misurati e documentati. “Al momento, sappiamo poco di come le restrizioni colpiscano le persone, in particolare quelle povere e vulnerabili”, dice. “Quando penso all’anno passato e alle migliaia di interventi che abbiamo messo in campo per combattere il coronavirus, mi rattrista sapere che finiremo con un’idea molto piccola di quali interventi specifici hanno aiutato, quali hanno fatto male e quali sono stati neutri”, dice Prasad. “Immagina di aver condotto uno studio multimiliardario e di non aver ricevuto alcuna risposta. In futuro – continua – dovremo essere più attenti nell’applicare le restrizioni”.
LINK A FONTE: https://www.medpagetoday.com/opinion/vinay-prasad/91054