
Medicina di guerra, come si interviene sui civili feriti durante un conflitto
Il recente conflitto in Ucraina ha riportato l’Europa e il mondo di fronte a scenari di guerra che hanno riaperto vecchie e nuove ferite. Fra queste il dramma di un conflitto che ricade direttamente sui civili e sulla popolazione locale. Una guerra che ha spostato il suo fronte fra le case e nelle città e che è cambiata anche in termini di impatto sociale e sanitario. Ecco che la medicina di guerra torna protagonista per salvare in primis la popolazione civile composta da uomini, donne e bambini con l’unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ha parlato a MOHRE il Dott. Paolo Grosso, medico anestesista di EMERGENCY che ha operato negli scenari di guerra più complessi come Afghanistan, Iraq, Cambogia, Libia, Sudan, Sierra Leone ed Uganda.
Cosa significa fare il medico di guerra?
A mio avviso fare il medico di guerra, il chirurgo di guerra è uno stato mentale e dell’animo oltre che professionale, lo dico dopo averlo sperimentato per tanti anni. La nostra chirurgia di guerra, sempre gratuita, non riconosce buoni e cattivi, bianchi e neri. Accoglie tutti perché il dramma della guerra ci rende tutti ugualmente vulnerabili . È un mettersi a totale disposizione di paesi e popoli dove la guerra nega il diritto di accesso alla salute e dove l’ingombro negli ospedali è così tanto che vengono bloccate tutte le altre attività e si fa fatica a fare medicina e chirurgia se non di guerra. Da un punto di vista strettamente professionale è molto complicato perché pretende conoscenze, organizzazione e gestione delle attività che sono precipue per quel tipo di attività. Bisogna poi dire che la medicina e la chirurgia di guerra sono totalmente diverse da quello che viene insegnato ed appreso nelle università. È qualcosa che si impara sul campo.
Quali sono i problemi più comuni che si riscontrano in uno scenario di guerra? Emorragie? Colpi di arma da fuoco?
Le diagnosi sono molto più difficili perché non sempre si hanno a disposizione gli strumenti diagnostici utili per capire e andare poi in sala operatoria ad affrontare una certa condizione. Il tempo è poi un fattore limite che non permette comportamenti attendisti. I feriti arrivano ai nostri pronto soccorso anche ore dopo il trauma. Spessissimo in sala operatoria ci si trova davanti a delle “sorprese” di tipo distruttivo, destruenti per organi e apparati a causa di innumerevoli ferite. Questo perché non esiste solo un foro di entrata e di uscita del proiettile ma tutta una serie di “percorsi” del proiettile stesso che provocano innumerevoli lacerazioni tissutali. Abbiamo ferite da penetrazione causate da schegge e proiettili ma abbiamo poi tutte le ferite da schiacciamento perché si rimane sotto i bombardamenti con i crolli di palazzi, case e strutture. C’è poi tutta una patologia che in ambito civile non vediamo che sono le “patologie da scoppio”, da onda d’urto che crea pneumotorace, emotorace, danno ad organi cavi causati dalla differenza di pressione generata dallo scoppio di una bomba, di un razzo, anche a distanza di centinaia di metri. Delle volte in ospedale arrivano pazienti che non hanno ferite esterne ma presentano gravi pneumotoraci ipertesi, lacerazioni intestinali . Sta alla bravura e all’esperienza del medico capire e diagnosticare subito queste condizioni. Per questo motivo c’è bisogno di una formazione professionale che deve rendere pronto il medico ad affrontare qualsiasi tipo di situazione “dalla testa ai piedi” cosa che da noi non siamo abituati a pensare perché abbiamo una medicina di “super specialità” mentre invece in un ospedale di guerra devi conoscere la chirurgia e la medicina intensiva a 360 gradi. L’attività chirurgica è legata a riparare dei danni e non una malattia. Le armi letali di oggi, proibite dalle convenzioni internazionali ma cinicamente utilizzate, causano danni spesso irreparabili e altamente lesivi: armi chimiche, armi tossiche, armi ustionanti.
I civili poi, anche a quanto racconta EMERGENCY, rappresentano il numero maggiore di feriti e vittime di guerra. È così?
Assolutamente si, nei nostri ospedali in chirurgia di guerra, il 90% degli accessi è dato dai civili, da uomini, donne, bambini ed anziani. Persone che soffrono delle conseguenze della guerra senza essere militari. Noi ci troviamo davanti a traumi destruenti di tutti i tipi, come appunto dicevo, e dobbiamo garantire la sopravvivenza a queste persone con una chirurgia che in primis deve curare il danno e poi in un secondo momento la funzione. La ferite da mina antiuomo, da mortaio, da scheggia, proiettili sono sempre ferite sporche. E’ spesso impossibile chiudere queste ferite senza averle prima bonificate e, se possibile, sterilizzate. L’impegno è di più atti operatori, su più giorni.
Oggi il volto della guerra è cambiato: Dalla trincea alle città
C’è un cambio del volto della guerra, che segue l’aumento della sua brutalità. Se tu porti la guerra in città, e quindi non più solo fra i militari ma fra i civili, quel paese rimarrà a terra per decine di anni perché quando distruggi i servizi, i professionisti, i civili, la rinascita di quella terra diventa difficilissima e lenta appunto. Pensiamo poi alle mine che seguono proprio questa logica. Le mine non uccidono, le mine feriscono, amputano. I bambini raccolgono le “mine giocattolo” e arrivano all’ospedale senza una mano, senza un braccio, saranno adulti che non lavoreranno più per tutta la vita. Una scelta brutale di guerra pensata per mutilare, e le mutilazioni in paesi terzi portano alla distruzione interna del paese stesso perché questi individui non avranno poi nessun tipo di assistenza da parte dello stato, perché diversamente da quanto accade da noi, lì non esiste. Saranno dunque condannati ad una vita di sofferenza.
Andrea Lupoli