“Memento mori” tra “education for death” e “death education”

Ines Testoni, professoressa di Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita e morte, nonché direttrice e fondatrice del master Death Studies & the End of Life dell’Università degli Studi di Padova.

L’Occidente vive un’epoca di grande benessere, mai conosciuto prima in alcun periodo storico o latitudine geografica. Gli indicatori che rendono evidente questo cambiamento epocale sono l’aumento della qualità della vita garantito a un numero crescente di persone e l’estensione delle aspettative di vita di ognuno. Malattie un tempo mortali, oggi sono facilmente guaribili con antibiotici, vaccini e chemioterapie. I comportamenti igienici appresi grazie alle scoperte scientifiche, ci hanno addirittura permesso di attraversare una pandemia che avrebbe potuto essere letale come la cosiddetta spagnola, contenendo al massimo i danni. L’influenza che piagò il mondo esattamente cento anni fa causò un numero di vittime impressionante, stimato tra i 30 e i 50 milioni, addirittura maggiore di quello della grande guerra che si consumava nel frattempo. Peraltro pare che la stessa infezione si sia diffusa a causa degli spostamenti dall’Oriente di manodopera per le industrie belliche, quindi potremmo considerare le perdite causate dal virus un effetto della guerra stessa. 

Il rapido progresso in Occidente è stato raggiunto in pochi anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando abbiamo imparato che le scelte di pace sono preferibili a quelle di guerra e che la medicina aiuta più di qualsiasi magia o miracolo a stare in salute. Appreso questo, il tempo e la qualità della vita sono cresciuti in misura esponenziale. 

Uno degli effetti collaterali – se così possiamo chiamarlo – di questa trasformazione della vita sociale è stato il trionfo della bellezza, del piacere di vivere godendo del presente. Le attività che guadagnano maggiore successo sono infatti quelle che fanno perno sulla valorizzazione dei gusti e delle esperienze, riducendo al minimo lo stress richiesto per ottenere appagamento. L’industria dei desideri è forse la più prolifica ed è in grado di produrre incessantemente immagini e modelli di comportamento irresistibilmente attraenti.

La tranquillità data dal non dover fare i conti quotidianamente con malattie debilitanti e con il rischio di perdere tutto improvvisamente a causa dell’incursione di soldati e macchine da guerra ha educato gli occidentali ad apprezzare in modo sempre più raffinato il piacere di stare al mondo occultando  sistematicamente angoscia e dolore.

In passato, il “memento mori” era uno degli strumenti culturali più efficaci utilizzati per preparare le persone all’inevitabile. Poiché una delle ragioni per le quali si moriva erano appunto le guerre, bisognava mantenere uno stato di allerta costante, perché l’abbandonarsi agli agi e ai piaceri che la vita può garantire metteva a repentaglio la sopravvivenza del gruppo. Si dice, per esempio, che l’impero romano sia declinato a causa di questo, ovvero della tendenza a ridurre lo stress e ad aumentare le occasioni di piacere. L’esercizio dell’ozio lasciò impreparati politici e soldati dinanzi alla furia distruttiva di gruppi umani culturalmente meno evoluti in cerca di territori da depredare per sopravvivere.

Hitler fece del “memento mori” uno degli strumenti più efficaci per formare l’esercito nazista e la schiera di torturatori che hanno massacrato milioni di civili. L’educazione alla morte che quel folle allestì è stata definita “Education for death” da Gregor Ziemer, che studiò come funzionassero le scuole nella Germania nazista. Nel libro che porta tale titolo, lo studioso ha descritto come innanzitutto i tedeschi venissero educati a scegliere la morte in nome degli ideali nazisti. Il resto è storia.

La conferenza della dottoressa Ines Testoni al TEDxBarletta: https://www.youtube.com/watch?v=QYvgd2JYEQ0

Oggi, in Occidente, grazie al benessere siamo giunti alla quinta generazione “death free”, ovvero di famiglie che non gestiscono nelle proprie abitazioni la malattia e la morte di un proprio componente. Questo ci ha allontanati dall’esperienza del decadimento, il quale ormai viene percepito come “ingiusto” e causato da qualcosa che non ha funzionato a dovere. Purtroppo, nonostante i successi della medicina, la morte è da ultimo inevitabile e proprio per questo ci ammaliamo o semplicemente ci consumiamo. Il fatto che non ne sappiamo gestire il processo è dovuto appunto al bisogno di vivere il meglio possibile, rimuovendo l’angoscia di saperci mortali. L’effetto però indesiderato di questo fenomeno è che comunque sappiamo di essere mortali e tutto ciò che ce lo ricorda agisce nel nostro inconscio e ci porta ad assumere comportamenti inconsapevoli. Per esempio, quando qualcosa ci disturba e ci ricorda che siamo mortali, diventiamo più aggressivi e intransigenti, senza volerlo. E – come Hitler ha dimostrato – coloro che sono consapevoli di questa dinamica possono usarla a livello culturale e politico per i propri fini. Facciamo un esempio banale: un immigrato uccide una persona. Se questa notizia viene abilmente manipolata, presto comincerà una ritorsione sociale nei confronti di tutti gli immigrati, generalizzando l’idea che tutti gli immigrati siano sostanzialmente degli assassini. Può accadere che si diventi quindi più irrazionali nella gestione delle nostre relazioni sociali perché abbiamo bisogno di continuare a coltivare i nostri ozi senza angosce.

Mi occupo da anni di “death education” che è l’opposto della “education for death”. L’obiettivo infatti è quello di rendere consapevoli le persone, compresi i bambini e gli adolescenti, delle dinamiche inconsce che vengono gestite culturalmente rispetto alla morte. La death education serve infatti per aumentare la consapevolezza più difficile da acquisire, al fine di valorizzare la vita, anche quando essa sembra insopportabile. Tale competenza ci prepara ad affrontare i tempi difficili in ogni momento del nostro cammino, perché ci offre l’opportunità di dare senso alle perdite, di riconoscerle e valutarle.

Non è infatti negando l’inevitabile che si può vivere meglio, ma affrontandolo e offrendogli un significato. Saper riconoscere i profili del limite permette di orientare il cammino, gestendo nel modo più consapevole possibile le manipolazioni che le diverse ideologie che guidano i nostri comportamenti sociali tentano di mettere in atto. Saperlo non è come non saperlo.

 

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