Murgia e il rituale per affrontare la crisi

di Anna Benedetto

La grande crisi.

L’umanità dovrà trovare una locuzione per ricordare il periodo della pandemia da SARS-CoV che ha accomunato vite e destini di una popolazione mondiale.

Occorre inoltre, superata l’emergenza sanitaria, sperimentare soluzioni nuove per superare l’”onda lunga” che il Covid ha smosso nelle nostre vite, psiche e relazioni. 

“Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi” di Michela Murgia è un’opera  che, attraverso 12 racconti, risponde sotto forma di romanzo a queste emergenze emotive. 

L’anno di Covid citato nel titolo è la cornice da cui si dipanano le storie: quelle del singolo che, per la prima volta nella (sua) storia, deve ricentrarsi e trovare un nuovo equilibrio tra il proprio mondo, che è andato in qualche modo in pezzi, ed un altro “caos” di proporzioni straordinarie, che è la pandemia. 

Romanzo o autobiografia?

Viene da chiedersi fin da subito alla lettura del libro (soprattutto del primo e dell’ultimo racconto) se l’autrice abbia deciso di congedarsi dai suoi lettori con un romanzo autobiografico. 

Per chi si fosse posto questa domanda, Murgia ha già risposto in una intervista per il suo editore Mondadori:

«Quando uno scrive tutto è autobiografico perché devi fare riferimento alle cose che conosci. E niente è autobiografico perché stai parlando a persone che non conosci e cerchi di trasferire quella sensazione e quella esperienza a  persone di cui non sai niente».

I protagonisti delle storie non hanno nomi. Alcuni racconti sono scritti in prima persona, altri in terza. L’espediente è utilizzato volutamente per ingenerare confusione sulle identità e stimolare l’attenzione del lettore. 

Protagonista è “una sola moltitudine” di personaggi la cui vita è osservata e raccontata, da angolazioni diverse, alla ricerca di soluzioni nuove a problemi inediti: una diagnosi che lascia senza speranze, la fine di una relazione di coppia, la geografia dei luoghi associata a ricordi che non sono più lieti, il bisogno ingovernabile di espellere sensazioni sgradite, un figlio che lascia la casa dei genitori, il paradosso di odiare i bambini ma dare il proprio “utero in affido”, gli affetti ed il distanziamento sociale imposto dal Covid più rigoroso per chi lavora in corsia, gestire e “dare un nome” alla propria morte o a quella di un proprio caro.

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L’importanza del rituale

Queste storie spesso si intrecciano, di racconto in racconto, in una geografia ideale che, oltre ad essere la città elettiva della scrittrice, non a caso è quella della “Città Eterna”: Roma.

Un rituale viene utilizzato per trasmettere un significato emotivo ad un’azione. Spesso associato al rito (ma anche al mito) e alla religione serve a scandire, codificare, dare una sequenza a eventi straordinari (ad esempio i sacramenti per la fede cristiana) o soprannaturali (i cosiddetti “misteri della fede”, per rimanere nel rituale cattolico oppure il rapporto con dio e le divinità). 

Come l’uomo religioso affida al rito i momenti più critici della sua esistenza personale, cercando in esso la garanzia del mantenimento della propria identità e l’appartenenza alla collettività di cui fa parte, ognuno di questi personaggi cerca a suo modo di “dare un nome nuovo” alla realtà che è tenuto ad abitare, anche quando questa sembra sfuggirgli di mano. 

L’elogio del non capire

“Tre ciotole” è una storia comune, corale, a tratti volutamente dissonante, per ricordarci che siamo tutti umani e per questo nulla dell’umanità deve sfuggirci o spaventarci. Il senso può anche venir meno. 

Conclude Murgia: «Non capire va bene. Se c’è qualcosa nella tua vita che non hai capito questo romanzo non te la spiegherà e ti dirà che non capire è a volte la soluzione migliore per stare nelle cose. Quindi, quanto c’è di autobiografico in questo libro? Tutto quello che non ho capito».

Il rituale è infatti lo strumento che ha l’uomo per vivere l’esperienza del sacro, pur non comprendendolo.

Quando la fine è nota

Per concludere, è quasi impossibile non essere a conoscenza del fatto che Michela Murgia abbia lasciato “le sue spoglie mortali” a 51 anni lo scorso 10 agosto.

Il libro, uscito per Mondadori il 16 maggio è stato un caso letterario annunciato, in quanto preceduto solo 10 giorni prima da una struggente intervista ad Aldo Cazzullo per il Corriere.

Qui la scrittrice, paladina della schwa e della “queer family”, aveva fatto il coming-out più doloroso da immaginare: il suo fine vita a causa di un “carcinoma renale al quarto stadio”.

Inizia così il romanzo. Con la notizia più paurosa da apprendere. Fino a quando un medico ti spiega che il male non è una cosa che hai, ma una cosa che sei. O sei diventato. Il registro bellico, tanto abusato per malattie come il cancro, è inappropriato. Non si può trasformarsi per l’ occasione in “guerrieri” perchè non è logico fare guerra a se stessi.

Murgia, in diverse occasioni e dibattiti letterari (e politici), si è esposta per affermare che il linguaggio che usi definisce (e può cambiare) la realtà che vivi.

«In principio era il verbo». 

Ed al potere della parola Michela Murgia – cattolica, femminista, teologa e al contempo teorica queer – ha dedicato a se stessa ed all’umanità tutta questo rituale letterario di liberazione dal male.

https://mohre.it

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