
Scompenso cardiaco negli anziani: la solitudine aggrava il quadro clinico
di Anna Benedetto
Nel nostro Paese lo scompenso cardiaco è la prima causa di ricovero negli over 65, con un impatto considerevole sul nostro sistema sanitario. A soffrire di scompenso cardiaco in Italia sono circa 600.000 persone: il 10% dei malati ha un’età superiore ai 65 anni e si stima che la sua prevalenza (dopo i 65 anni) raddoppi a ogni decade di età.
Questa patologia cronica causa un peggioramento della qualità della vita e della capacità di affrontare le attività quotidiane con frequenti ricoveri per mancanza di respiro e accumulo di liquidi nell’organismo.
Un recente studio del Sapporo Medical Univeristy College pubblicato su Frontiers in Cardiovascular Medicine è il primo a mostrare una stretta associazione tra la solitudine con perdita del ruolo sociale percepito e scarso esito clinico nei pazienti con scompenso cardiaco più anziani.

Dottor Sebastiano Marra, cardiologo e membro del board di Mohre
Abbiamo chiesto un commento su questo tema al Dott. Sebastiano Marra, primario emerito di Cardiologia, membro del board scientifico dell’osservatorio Mohre e co-autore del libro “Aspetti emozionali nel paziente cardiologico. Problemi diagnostici e strategie terapeutiche”.
«Alla luce della mia esperienza in corsia – ci illustra Marra – ritengo che il rapporto tra la psiche ed apparato cardiovascolare sia non solo importante ma spesso determinante in certe condizioni cliniche. Il senso di solitudine e malessere di chi perde socialmente una funzione (di solito questo avviene nell’anziano perché è andato in pensione e/o perché la rete dei rapporti sociali e familiari inizia a sgretolarsi) porta l’anziano incontro ad uno stato depressivo. È questo il vero problema: la depressione a livello cardio-vascolare ha diverse implicazioni. La depressione viene compensata attraverso l’attivazione del sistema ipofisario, ipotalamico e surrenalico attraverso la produzione di alcune sostanze adrenergiche e di alcune sostanze pro-infiammatorie, che hanno l’effetto di alzare la frequenza cardiaca, di dare un aumento della pressione arteriosa, di dare spesso extrasistolìa di vario tipo (atriale o ventricolare), di dare la perdita dell’heart rate variability (la variabilità della frequenza cardiaca) – per cui il paziente ha una frequenza cardiaca alta e fissa. La depressione ha inoltre un effetto protrombotico perché attiva a livello serotoninico l’attività piastrinica, ha inoltre una attività pro-infiammatoria perché attiva anche il sistema rennina-angiotensina che presiede alla regolazione della pressione arteriosa.
Concludendo, “la testa” in termini psichici ha degli effetti sull’apparato cardiovascolare ipertensivanti, aritmizzanti, protrombotici, proinfiammatori, proarteriosclerotizzanti, che determinano: incidenza di malattia in generale, incidenza di eventi cardiovascolari in particolare. E questo provoca a livello sanitario un aumento di prestazioni e/o ricoveri esponenziale».
La vita dello scompensato cardiaco
Lo scompenso cardiaco è una condizione caratterizzata da un deterioramento della funzionalità del cuore tale da renderlo incapace di contrarsi (sistole) e/o di rilasciarsi (diastole) in maniera adeguata per pompare abbastanza sangue e soddisfare le esigenze dell’organismo. A causa dell’insufficienza cardiaca da un lato gli organi e i tessuti ricevono quantità insufficienti di ossigeno e sostanze nutritive per le loro necessità metaboliche (effetto a valle del cuore), dall’altro tende a verificarsi un accumulo di liquidi in eccesso nei polmoni e nei tessuti (effetto a monte del cuore).
I sintomi dello scompenso cardiaco non sono sempre clinicamente evidenti: nello stadio precoce i pazienti sono asintomatici, oppure avvertono sintomi lievi, come ad esempio affanno solo per sforzi molto importanti. I sintomi divengono progressivamente più evidenti fino a indurre il paziente a effettuare accertamenti cardiologici per malessere o addirittura rendere necessario il ricovero in ospedale.
A causa dell’incapacità del cuore di pompare il sangue efficacemente e di fornire ossigeno a organi importanti come reni e cervello, ma anche ai muscoli, le manifestazioni diventano più intense con: dispnea (mancanza di fiato) da sforzo e talora anche a riposo, dispnea in posizione supina, tosse, astenia, edema degli arti inferiori, addome gonfio o dolente, perdita di appetito, confusione, deterioramento della memoria. La condizione può aggravarsi fino a portare all’edema polmonare acuto e alla morte.
Per trattare lo scompenso cardiaco, oltre ai farmaci ed ai trattamenti chirurgici, è cruciale porre l’attenzione sugli stili di vita. Fumo, colesterolo alto, ipertensione arteriosa, sovrappeso e sedentarietà sono i classici fattori di rischio cardiovascolare. Modifiche allo stile di vita e alle abitudini alimentari – come la pratica regolare di attività fisica aerobica di intensità moderata, la riduzione dell’apporto di sale e l’automonitoraggio (controllo quotidiano del peso corporeo e della presenza di edemi, misurazioni frequenti della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca) – sono acclarati nella prevenzione e nel trattamento di questi pazienti.
L’incidenza dello scompenso cardiaco aumenta con l’avanzare dell’età: oltre l’80% dei pazienti con diagnosi di SC ha più di 65 anni e la prevalenza nelle persone anziane è in rapido aumento nella maggior parte dei paesi del mondo, grazie al generale avanzamento dell’età media e ai progressi delle terapie mediche.
Il recente studio pone l’attenzione sul ruolo peggiorativo che una mancata vita di relazione e l’assenza di socialità comportano sui pazienti in età più avanzata.
I risultati dell’indagine
La solitudine fa male al cuore e finalmente ci sono evidenze scientifiche.
Gli anziani e i grandi anziani (over 85enni) con scompensi cardiaci sono soggetti ad ospedalizzazioni più frequenti e complesse – a causa delle comorbilità commisurate al crescere dell’età – con un impatto importante sul sistema sanitario nazionale.
La fragilità sociale rende gli anziani anche pazienti più fragili. E non solo se si soffre di scompenso cardiaco.
Il recente studio, condotto su 310 pazienti anziani (over 65) con insufficienza cardiaca, li ha seguiti per tre anni dopo il loro ricovero in ospedale. Si tratta di un periodo di follow-up molto più lungo rispetto a studi precedenti, e questo ha permesso di avere una visione più ampia sugli esiti clinici dell’isolamento e della fragilità sociale.
Lo studio è stato condotto in Giappone e, sebbene i ricercatori abbiano evidenziato che le interazioni sociali possono variare tra le diverse culture, è estremamente probabile che la fragilità sociale abbia un impatto negativo sulla salute dei pazienti anziani con scompenso cardiaco in tutte le società.
Al campione di anziani è stato sottoposto il questionario delle “cinque domande di Makizako”. Questo questionario è stato originariamente derivato da anziani residenti in comunità per indagare i seguenti cinque elementi: “Esci meno frequentemente rispetto all’anno scorso?”; “A volte visiti i tuoi amici?”; “Ti senti utile agli amici o alla famiglia?”: “Vivi da solo?” e “Parli con qualcuno ogni giorno?”.
Una risposta negativa a due o più delle cinque domande secondo questo approccio sarebbe un indicatore di fragilità sociale ed è associato progressivamente a debolezza muscolare, nuova insorgenza di fragilità fisica e disabilità.
I dati demografici, farmaci, dati di laboratorio, dati ecocardiografici, prestazioni fisiche e stato funzionale, stato nutrizionale, comorbidità e fragilità fisica, sono stati raccolti delle cartelle cliniche dei pazienti.
La fragilità sociale porta allo sviluppo della fragilità fisica (non solo cardiaca)
Lo studio ha confermato, anche nell’ambito dello scompenso cardiaco, quanto anticipato dal questionario. La fragilità sociale, che include la perdita di un proprio ruolo percepito all’interno della società (e della famiglia), lo sgretolarsi o addirittura il venir meno di reti ed attività sociali è un grave fattore di rischio per un invecchiamento sano.
Per quanto concerne lo scompenso cardiaco in particolare l’isolamento sociale è stato associato a un rischio maggiore del 55% di riammissione ospedaliera.
La perdita del ruolo sociale percepito è stata associata a tutti gli indici di fragilità fisica e psicologica, classificandosi come il fattore più trasversale di minaccia alla salute degli anziani fragili. Negli anziani che vivono in comunità, sono state dimostrate correlazioni tra una bassa percezione di utilità ed esiti clinici sfavorevoli come la disabilità, la progressione delle malattie organiche e la mortalità.
Lo studio si conclude ponendo l’accento alla necessità di integrare un aspetto sociale nell’assistenza post-operatoria e nella gestione di questa categoria di pazienti fragili. La partecipazione a compiti domestici ed attività sociali come l’impegno in attività di volontariato significative che servono ad aiutare gli altri, possono tutti contribuire a migliorare la percezione del ruolo sociale in questi pazienti, e questi cambiamenti nello stile di vita possono portare effetti positivi per una vita più lunga, più sana e in fine meno onerosa per il sistema sanitario nazionale.
Socialità : strumento terapeutico e riabilitativo
Un precedente studio del 2020, condotto dalla dottoressa Anne Vinggaard Christensen, dottoranda al The Heart Center, Ospedale universitario di Copenaghen e pubblicato su Heart aveva già rilevato un’associazione tra la solitudine e l’aggravarsi delle condizioni dei pazienti, al punto che per i pazienti ricoverati per problemi cardiaci raddoppia il rischio di morte entro un anno dalle dimissioni se affrontano da soli la convalescenza. Soprattutto se soffrono per il loro isolamento.
Lo studio ha preso in esame 13463 pazienti di 5 centri cardiologici danesi con cardiopatie ischemiche, aritmie e insufficienze cardiache o valvolari, a cui è stato posto un questionario sulla loro salute fisica, mentale e sullo stile di vita, come il fumo o il sostegno sociale (come ad esempio la presenza di amici o famigliari). Ai pazienti sono state poste anche alcune domande per differenziare chi viveva da solo e chi effettivamente sentiva la solitudine come un peso nella propria vita.
«Era importante raccogliere informazioni su entrambi, dal momento che le persone possono vivere da sole, ma non sentirsi isolate, mentre altri convivono, ma si sentono soli» ha spiegato la dottoressa Vinggaard Christensen.
La sensazione di solitudine potrebbe rappresentare quasi un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo, oltre ai classici quali pressione alta, sovrappeso, ipercolesterolemia e diabete. Addirittura per un anziano in buona salute l’isolamento aumenterebbe del 66% la probabilità di subire un evento cardiovascolare come infarto o ictus.
Sentirsi soli è stato associato a scarsi risultati in tutti i pazienti, indipendentemente dal loro tipo di malattia cardiaca. La solitudine è stata associata a un rischio di mortalità raddoppiato nelle donne e quasi raddoppiato negli uomini. Sia per gli uomini che per le donne, la solitudine li predisponeva ad probabilità tre volte superiore di riportare sintomi di ansia e depressione con una qualità della vita significativamente inferiore rispetto a quelli che non si sentivano soli.
«La solitudine è un forte predittore di morte prematura, peggiore salute mentale e minore qualità della vita nei pazienti con malattie cardiovascolari, e un predittore molto più forte rispetto al vivere da soli, sia negli uomini che nelle donne» ha detto Vinggaard Christensen.
Inoltre le persone con scarso supporto sociale soffrono esperienze peggiori in termini di salute perché hanno stili di vita non salutari, sono meno aderenti al trattamento e sono più colpite da eventi stressanti.
L’autrice dello studio conclude: “Viviamo in un’epoca in cui la solitudine è più presente e gli operatori sanitari dovrebbero tenerne conto quando valutano il rischio. Il nostro studio mostra che porre due domande sul supporto sociale fornisce molte informazioni sulla probabilità di avere o meno scarsi risultati di salute».
Le conclusioni, anche per quello studio, sono un invito agli esperti di salute pubblica a non trascurare l’importanza della socialità nel percorso terapeutico di riabilitazione.
«L’anziano – conclude il Dott. Marra – ha più bisogno di assistenza perché, oltre alle varie patologie, va incontro ad un decadimento funzionale. Ma non vi è a livello sociale una attenzione specifica. Come associazione di vololontariato, con Gli amici del cuore ( di cui sono presidente), in Piemonte abbiamo accostato una attività esterna di prevenzione nelle piazze – attraverso cui negli anni abbiamo valutato (e spesso salvato) circa 14mila individui – ad una che facciamo dentro il reparto di Cardiologia dell’ospedale Molinette di Torino. Qui i volontari (da noi formati ma che non si sovrappongono al personale sanitario) fanno assistenza al paziente ricoverato, ricoprendo quella funzione di supporto (anche emotivo e psicologico) e di ponte con la famiglia ed il mondo esterno. Spesso il paziente soggetto ad un ricovero, indipendentemente dall’età, soffre di una condizione depressiva reattiva al ricovero e per questo va supportato. Uno studio che abbiamo fatto proprio alle Molinette – quando ero primario al reparto di Cardiologia – ha messo in rilievo il dato non trascurabile che 1 paziente ricoverato su 5 (il 20%) riportava problematiche di depressioni importanti».