
Se lo stress traumatico è ‘secondario’
Dolore ‘per conto terzi,’ sofferenza, fatica ‘da compassione’ sono forme di stress traumatico ‘secondario’. Capita a chi svolge relazioni di aiuto, chi è in prima linea, chi ascolta quotidianamente le disgrazie delle persone. “E’ come se tutto quel dolore ti rimanesse attaccato addosso” mi confessa G., 41 anni, poliziotta “non viene via con la doccia la sera, e si stratifica sul cuore e sull’anima. Ad un certo punto sono arrivata al limite. Non riuscivo a dimenticare, sognavo quello che avevo ascoltato, le violenze domestiche, gli abusi, gli stupri, le persone disperate diventate vittime loro malgrado. Amo il mio lavoro ma qualcosa si è spezzato. Ho dovuto prendere un lungo periodo di aspettativa e poi ho mollato. Mi è servito un lungo periodo di terapia psicologica e un nuovo lavoro per lasciarmi alle spalle il disagio. Ho cambiato lavoro perché in quello stato psicologico non ero più utile a nessuno”.
Chi ascolta e aiuta le vittime di traumi ha, dicono le statistiche, un rischio 4 volte maggiore di soffrire di depressione e presenta un tasso più elevato di disturbo da abuso di sostanze. Poliziotti, medici e infermieri, assistenti sociali, operatori del soccorso. Alcune specialità ne sono più colpite di altre: oncologi, anestesisti, operatori di terapia intensiva. Più del 25% dei volontari soffrono di sintomi riconducibili al ‘disturbo post traumatico da stress’, ne sono vittime collaterali. E’ come se il trauma ascoltato fosse capace di trasmettersi da un soggetto all’altro, come se l’esperienza si potesse espandere come centri concentrici.
Non ne sono esenti i professionisti della salute mentale, psicologi, psichiatri, chi lavora nel campo delle dipendenze: una ricerca americana ha stimato in questa fascia di sanitari una prevalenza di ansia del 72%, di diffidenza e ritiro sociale nel 62%, di vulnerabilità nel 42%.
Ma anche caregiver, familiari, partenti di chi vive una condizione di sofferenza cronica, rischia di ammalarsi a sua volta. L’esposizione continua ai bisogni genera un fenomeno singolare, una sorta di esaurimento della compassione , la ‘compassion fatigue’, con stanchezza, insofferenza e tendenza a diminuire la disponibilità all’assistenza. Uno studio di Hooper del 2009 ha rilevato che interessa l’85% degli infermieri di Pronto soccorso. E’ un prezzo emotivo molto alto, specialmente per chi non ha molti spazi o tempi di recupero psico emotivo che finisce per traumutarsi in burn out, che letteralmente, ‘brucia’ il lavoratore. Il quale perde il senso di ciò che sta facendo, sente di essere staccato dalla sua attività e di svolgerla come un automa. Nessun piacere, nessuna gratificazione. La mente è chiusa alle emozioni, l’anestesia emotiva completa.
E se il lavoratore può sottrarsi con periodi di ferie o, in alcuni casi, cambiando lavoro, per i familiari caregiver obbligati stress e disagio possono diventare insostenibili.