Un Capodanno no F.O.M.O.

di Anna Benedetto

 

Si chiama F.O.M.O. (fear of missing out), non è ancora presente nel Manuale  Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), ma si direbbe ne sia affetta la maggior parte dei giovani, “nativi digitali”. 

Teorizzata per la prima volta nel 2004 dal Andrew Przybylski, docente di “Human Behaviour and Technology” ad Oxford, l’ansia sociale di essere tagliati fuori dalla rete, soprattutto virtuale, dei propri contatti sta prendendo sempre più piede anche tra i boomers che, per motivi lavorativi o deformazione personale, negli anni ha sviluppato un attaccamento, ossessione o dipendenza verso quel prodigio che ha il potere di “connetterci” con qualsiasi altra cosa o persona nel mondo con un semplice click: lo smartphone.

La paura di “perderci qualcosa” è all’origine di certi comportamenti che, più o meno in maniera patologica, sono sotto gli occhi di tutti. Spesso si traducono in ore di infinite scrolling del cellulare, passando per le “bacheche” degli altri (spesso perfetti sconosciuti) alla ricerca di stimoli ed appagamento (che spesso si concludono in qualche carrello della spesa virtuale).

Fatto sta che chi ha questo disturbo tende ad utilizzare i social network in maniera maggiore e pervasiva: al momento del risveglio, durante le lezioni a scuola e all’università, prima di andare a letto, quando ci si sveglia di notte e persino alla guida. 

Per i casi di vera e propria dipendenza e fenomeni di astinenza da social network è stato coniato anche il termine nomofobia (dall’inglese no-mobile) che si verifica quando si è impossibilitati a connettersi (denominata anche sindrome da disconnessione).

Il paradosso è che il tempo trascorso ad osservare “le vite degli altri” (o più verosimilmente  la loro rappresentazione via social) o in ostaggio delle innumerevoli “notifiche”, di fatto ne leva al qui ed ora, depauperando le relazioni “non virtuali” e l’evoluzione personale.

 

Se non è FOMO è FOBO

La F.O.B.O. (fear of better options) è l’altra faccia della medaglia.  Potremmo definirla l’ansia della “migliore offerta”,  ovvero l’incapacità di scegliere una sola tra le mille opzioni e quindi la tendenza a voler fare o avere tutto. O, al contrario, la F.O.D.A. (Fear Of Doing Anything), uno stallo generato dall’incapacità di scegliere tra opzioni tendenzialmente infinite.

Tra i sintomi legati alla FoMO ci sono, da un lato, gli aspetti connessi alla paura, ansia, preoccupazione, stress e angoscia legate all’idea di essere esclusi dagli eventi sociali; dall’altro un insieme di strategie volte ad evitare questi sentimenti spiacevoli, mediante lo sforzo di “monitorare” costantemente gli altri (conoscenti reali e virtuali) attraverso un uso massivo dei social media.

 

Cosa fai a Capodanno?

Non è difficile immaginare l’effetto detonatore di un “Cosa fai a Capodanno?” – che già da decenni mette in difficoltà generazioni di occidentali –  nella rete planetaria e senza frontiere della FOMO.

La vera notizia è che il Capodanno è sopravvalutato. A dirlo quest’anno c’è anche Chiara Ferragni, l’imprenditrice-’influencer più famosa d’Italia, il cui lavoro è un format di successo che che mescola marketing e vita privata in un caleidoscopio irresistibile per i più. 

 

L’ozio ovvero l’arte dell’annoiarsi

A ribaltare del tutto la prospettiva ci pensano gli antichi Romani. I latini chiamavano “otium” il tempo libero, che si contrapponeva a quello da dedicare al lavoro e alla vita pubblica, ovvero il “negotium”. 

Lungi dall’essere “tempo perso”, il tempo dell’ozio era dunque ristoratore e prezioso, perchè dedicato a se stessi ed allo studio (otium litteratum), ovvero all’evoluzione personale.

Tra le varie forme intellettive di riposo, vi erano, pure, i momenti di svago, come: passeggiare per la città, andare al mare o al sacro fiume, abbandonarsi al relax delle terme, recarsi al circo o all’anfiteatro, sfidarsi in giochi di abilità o d’azzardo.

A tal proposito, Seneca ha dedicato un intero trattato flosofico, il “De otio”, al tema:

Quindi io vivo secondo natura se mi sono completamente dedicato a lei, se sono suo spettatore e cultore. La natura ha voluto che vivessi entrambe le vite, quella attiva e quella libera per la contemplazione: io le vivo entrambe perché neppure la contemplazione è senza attività”.

Qui Seneca parla della necessità dell’uomo di “secedere” (andare in disparte), per tenere lontano l’influsso maligno della folla, che ci condiziona impedendoci di stare saldi su un giudizio preso. Mentre in disparte è invece possibile richiamare alla mente gli esempi degli ottimi e scegliere quello su cui regolare stabilmente la nostra vita. E questo discernimento è possibile solo nella condizione dell’otium (ritiro). 

Al di là dei “rimedi” suggeriti dalla filosofia antica, il riposo è alla base dei meccanismi curativi e rigenerativi di mente e corpo e del buon funzionamento del sistema immunitario. Un buon sonno condiziona inoltre anche le performance lavorative, incidendo sul successo professionale ed economico.

 

Anche “l’uomo più impegnato del mondo” spegne il cellulare

Come si gestisce l’ansia di perdersi una notifica quando sei un top manager, il cui operato può avere ricadute sul PIL di una nazione?

Ritratto di Sergio Marchionne (Chieti, 1952 - Zurrigo, 2018 )Sarà difficle da credere ma anche Sergio Marchionne, top manager italo canadese che dedicava al lavoro 18 ore al giorno, spegneva il cellulare – anzi i suoi 3 cellulari (uno americano, uno svizzero e uno italiano) – regolarmente. E, a seconda degli appuntamenti che aveva in agenda, accendeva il telefono del fuso giusto. 

 

 

Da sinistra a destra: Sergio Marchionne, Giorgio Napolitano, Mario Calabresi Mario Calabresi, in qualità di giornalista ed amico, in più occasioni ha narrato un aneddoto cruciale per spiegare il suo modus operandi: “Teneva sempre i telefoni nel sacchetto di plastica e li tirava fuori solo quando ne aveva bisogno perchè diceva che quando tu metti il telefono sul tavolo, il telefono si frega la tua attenzione. Il multitasking – secondo Marchionne – significa che tu puoi fare due cose insieme male, tre cose malissimo e quattro in modo schifoso. Fanne una sola alla volta”.

Infatti il suo metodo di lavoro prevedeva di concentrarsi su una cosa alla volta, fino a che non era chiusa. Ogni 2 ore però sull’ agenda erano segnati 20 minuti da dedicare a “Pasquale”. Pasquale era lui: ovvero il suo tempo. Da utilizzare per concedersi delle pause, per riflettere, digerire le cose oppure da dedicare ad un bisogno personale o una necessità familiare.

E – probabilmente – anche per dare un’occhiata allo schermo di uno dei suoi cellulari.

 

Disconnessi e contenti

Si può uscire dal tunnel della FOMO – o del divertimento, come cantava Caparezza – smettendo progressivamente di sostare desideranti davanti alla vetrina virtuale dei content creator sui social ed entrare a grandi passi nella realtà.

Ha parlato per la prima volta di JOMOjoy of missing out – nel 2018 il New York Times: la “gioia della disconnessione” come rimedio allo stress a cui le nuove generazioni si sentono più sottoposte, proprio a causa della loro maggiore esposizione ai media.

“L’erba del vicino”, sopratutto se è una prateria sconfinata grande quanto tutto il globo, sarà sempre più verde impedendoci di vedere gli altri colori che sono sotto il nostro naso.

La vita, vissuta nel suo flusso, non può essere fatta solo di “best of” ma di momenti vari e complementari, anche di noia e di riposo. 

Valorizzare questi momenti, talvolta addirittura “chiamandosi fuori” dall’ansia di perdersi cose e dedicandoli alla nostra crescita personale, è il miglior investimento per il futuro…e dunque anche per l’anno che verrà.

 

…Buon 2023 dalla redazione di Mohre!

 

https://mohre.it

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