
Un farmaco per l’asma aiuta a recuperare i ricordi
di Anna Benedetto
Un farmaco già in uso per l’asma cronico, il roflumilast, ha dato ottimi risultati per il recupero dei ricordi temporaneamente persi per la mancanza di sonno.
Sperimentato con successo sui topi, lo studio è stato condotto da un team di ricercatori dell’Università di Groningen (Olanda) e recentemente pubblicato sulla rivista Current Biology.
La ricerca ha dimostrato che la privazione del sonno reca danni alla memoria ma i ricordi non sono persi definitivamente: è stato infatti possibile recuperarli attraverso l’utilizzo combinato di questo farmaco e di un approccio optogenetico.
Il farmaco, clinicamente approvato per l’uso negli esseri umani già da tempo ed utilizzato per pazienti con asma o BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), apre uno scenario accolto con fermento dalla comunità scientifica e le prospettive di utilizzo futuro sono esponenziali.
Il Dott. Andrea Romigi, responsabile Scientifico Centro di Medicina del Sonno – IRCCS Neuromed di Pozzilli e membro del comitato scientifico di MOHRE, ha confermato l’entusiasmo degli studiosi: «Penso che i dati del modello animale siano incoraggianti e potrebbero essere applicati ad un potenziale studio nell’uomo sebbene lo studio in oggetto ha documentato la massima efficacia combinando la stimolazione optogenetica ancora difficilmente applicabile nell’uomo».
Romigi prosegue dicendo: «Se confermata la tollerabilità potrebbero esserci le basi per trail clinici specifici su roflumilast (un farmaco attualmente indicato nella terapia delle broncopneumopatie cronico ostruttive) o farmaci con un simile meccanismo di azione che aumenti i livelli di AMP ciclico nel cervello, che potrebbero potenzialmente essere applicabili ad altri modelli di deficit cognitivi che sono noti per comportare un deficit nel recupero di una particolare memoria (ad esempio, malattia di Alzheimer)».
Lo studio sulla memoria dei topi
La privazione del sonno può portare alla difficoltà di memorizzare nuove informazioni acquisite attraverso l’interferenza con i processi di consolidamento funzionali e strutturali specifici ed i cambiamenti biofisici o biochimici nel cervello in risposta a stimoli esterni e indispensabili per il recupero naturale della memoria. L’AMP ciclico, è un messaggero cellulare importante in molti processi come la produzione di energia, il controllo della crescita cellulare, dell’apprendimento e della memoria. L’aumento dei livelli di AMP ciclico e l’attivazione di altri bersagli a valle (stimolazione optogenetica, basata su impulsi di luce, dell’animale), possono modulare l’eccitabilità delle cellule dell’ippocampo che contengono le unità di acquisizione dei nuovi ricordi.
Questo aumento del livello di eccitabilità basale può compensare l’effetto negativo della perdita di sonno durante il consolidamento della memoria, rendendo nuovamente accessibili le informazioni ‘nascoste’ nell’ippocampo.
I risultati di questo studio suggeriscono quindi che la maggiore eccitabilità indotta dalla AMP ciclico è sufficiente per salvare le informazioni memorizzate in modo non ottimale a causa della perdita di sonno. Pertanto, il roflumilast (un farmaco attualmente indicato nella terapia delle broncopneumopatie cronico ostruttive), che aumenta i livelli di AMP ciclico, potrebbe potenzialmente essere applicabile anche ad altri modelli di deficit cognitivi che sono noti per comportare un deficit nel recupero di una particolare memoria (ad esempio, malattia di Alzheimer).
Cos’è l’optogenetica?
L’optogenetca è metodo sperimentale nella ricerca biologica che coinvolge la combinazione di ottica e genetica in tecnologie che sono progettate per attivare e/o disattivare (mediante l’eccitazione o l’inibizione) – con la stessa facilità di un interruttore – specifici neuroni modificati geneticamente usando solo un impulso luminoso.
Va detto subito che si tratta di una tecnica abbastanza invasiva applicata finora quasi esclusivamente su cavie animali ma che sta contribuendo a grandi evoluzioni nel campo delle neuroscienze.
Occorre infatti compiere un’opera di ingegneria genetica sui neuroni, modificati geneticamente attraverso dei virus usati come vettori, per inserire gli interruttori molecolari utili per attivare o disattivare le cellule.
La prima sperimentazione umana che ha coinvolto l’optogenetica è iniziata nel 2016. E’ stata progettata per esplorare il potenziale uso della tecnologia per il trattamento di pazienti affetti da retinite pigmentosa ereditaria: una malattia che porta alla cecità.
Nel corso dell’intervista Romigi ci ha anche aggiornato sullo “stato dell’arte” dell’optogenetica sul cervello umano: «L’optogenetica utilizza la luce per controllare l’attività di cellule opportunamente sensibilizzate e ha portato a importanti progressi nel campo delle neuroscienze di base da quando è emersa per la prima volta nel 2005. Questa tecnica è entrata in alcuni studi clinici su malattie come la retinite pigmentosa. Un importante obiettivo di interesse è l’uso dell’optogenetica all’interno del cervello, dove la capacità di controllare con precisione l’attività di specifici sottogruppi di neuroni potrebbe portare a nuovi trattamenti per una vasta gamma di disturbi dall’epilessia alla malattia di Alzheimer e a patologie psichiatriche come le psicosi. Tuttavia, poiché qualsiasi terapia richiederebbe sia l’uso di tecniche di terapia genica per introdurre proteine non umane, sia dispositivi elettronici impiantabili per fornire stimolazione ottica, l’applicazione di questa tecnica nel cervello presenta ancora una lunga serie di ostacoli».
Studi in corso e prospettive di utilizzo sugli esseri umani
Sempre in Olanda, coordinato da un team di ricercatori della Maastricht University, è in corso uno studio di fase II che sta sperimentando l’uso del roflumilast su esseri umani per il recupero di attività cognitive a 1 anno dall’ictus.
Se nei primi mesi dall’ictus può verificarsi un recupero neurologico spontaneo, a un anno non si riscontra quasi alcun recupero funzionale. Circa il 40% dei pazienti indica che uno dei maggiori problemi che stanno affrontando è il deterioramento delle funzioni cognitive, che sembra anche essere predittivo per l’esito della malattia. L’obiettivo principale della sperimentazione su questo campione di 100 soggetti sarà di aiutarli ad affrontare e ad adattarsi alla nuova situazione, verificando la possibilità di migliorare effettivamente le funzioni cognitive (es. memoria episodica) mediante compiti comportamentali. In secondo luogo, saranno valutati gli effetti del roflumilast sulle attività quotidiane e sul benessere.